L’assegno unico universale (Auu), introdotto con la legge delega 46 del 1° aprile 2021, è stato presentato come una novità storica nella politica familiare italiana. Ma, bilanciando positività e criticità, ne emerge una misura basata su una filosofia molto datata, come mostra l’ambiguità delle due U che lo denominano: Unico e Universale. L’unicità è una meta da lungo perseguita da un settore della governance della spesa pubblica, fin dagli anni 80, in cui pure, come ha ammesso Giuliano Amato in un’intervista del 2014, il debito pubblico cresceva a dismisura per ragioni politiche. Il disegno cioè di avere da parte della governance un unico indicatore da manovrare (la semplificazione) per operare un calcolo matematicamente rigoroso della entità di tale intervento in un’ottica redistributiva di risorse individuali dei singoli percettori di reddito.



I singoli, quindi non le famiglie, quando invece questa linea redistributiva è totalmente cieca nei confronti della famiglia, perché la progressività con cui opera, com’è stato più volte dimostrato, si traduce in penalizzazione delle famiglie quanto più esse sono numerose. Quindi è un’unicità sostanzialmente unilaterale, unicità da parte della governance non da parte delle famiglie. In una logica centralizzata, assistenzialista, del tutto opposta alla sussidiarietà, in genere applicata in tutta Europa, anzi riconosciuta a pieno titolo come equità, equità orizzontale: non si può applicare la stessa imposta a cittadini con diverse capacità contributive.



È evidente che la presenza dei figli è un fattore di riduzione di tale capacità. Com’è stato sostenuto in un autorevole intervento di commento al convegno Arel del 29 marzo di quest’anno, l’abolizione delle detrazioni per figli a carico, operato dall’Auu, fa sparire dal nostro ordinamento il riconoscimento della capacità contributiva che invece vige nella maggior parte dei Paesi europei.

Quanto alla qualificazione di Universale, data all’assegno, si potrebbe dire usando il latino di san Tommaso non è universalità simpliciter, cioè destinato nella stessa misura a tutti i nuclei familiari indipendentemente dai redditi individuali dei loro genitori in una logica di cittadinanza di ogni famiglia (sarebbe paradossale che ogni cittadino ha diritto a un reddito ma non ogni famiglia), ma universalità quodammodo, nel senso che l’assegno viene erogato a categorie di lavoratori che un tempo ne venivano esclusi. Il vecchio assegno al nucleo veniva erogato in presenza di un reddito che provenisse almeno per il 70% da un rapporto di lavoro dipendente, l’Auu invece spetta a prescindere da tale requisito e, quindi, ne potranno beneficiare anche i lavoratori autonomi che prima ne erano esclusi.



Quanto all’unicità della misura, c’è da osservare che con questa decisione non sarebbe stato d’accordo il grande demografo Alfred Sauvy che di fronte alla grave decremento della popolazione francese impostò il Code de la Famille, mise in cantiere un ventaglio di misure, adeguandole alle varie situazioni familiari, avendo come pilastro il quoziente familiare.

La famiglia non vista come investimento

Un altro elemento discutibile è il fatto di pensare la famiglia solo in una logica di redistribuzione e non di investimento, mentre vari economisti come il premio Nobel Gary Becker, e lo storico sociale Francis Fukuyama, hanno mostrato come la famiglia sia un investimento generatore di quel capitale sociale, che il presidente del Consiglio Mario Draghi ha indicato come una delle principali risorse del nostro Paese. Una logica di investimento richiede un riconoscimento fiscale della funzione socio-economica della famiglia e non un politica assistenziale che mortifica la soggettività della famiglia e la sussidiarietà. Tra l’altro una logica assistenziale seppure notevolmente potenziata finanziariamente, non essendo ancorata a diritti costituzionali come il fisco, consente al decisore centrale di avere in mano una leva per restringere l’intervento a suo piacimento. Di fatto l’assegno unico che a regime dovrebbe arrivare a tutti, seppure in misura decrescente in base al reddito, nella prima fase non verrà erogato alle famiglie che supereranno un certo livello di Isee. Niente vieta dunque che di fronte a speciali congiunture si proceda ad analoghe restrizioni.

Anche in questo caso la storia è maestra di vita. Si calcola che da fine anni 80 al 2000 fondi destinati all’assegno familiare sono stati dirottati per altri usi – pensioni, cassa integrazione, ecc. – per un ammontare rivalutato a oggi pari a circa 173 miliardi di euro. Attualmente il datore di lavoro paga una contribuzione sociale destinata agli attuali assegni al nucleo di 0,68 punti percentuali, il cui gettito è stimato in circa 2 miliardi. Vale la pena osservare che il gettito di questo contributo da tempo non è più contabilizzato al finanziamento dell’assegno al nucleo, ma finisce nella contabilità generale dell’Inps, per cui il costo dell’attuale assegno al nucleo non è di 4,7 miliardi ma di 2,7.

Confluiranno, dunque, nel nuovo Auu 21,7 miliardi. Circa 14,2 miliardi saranno ricavati dalla soppressione dell’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori, all’assegno di natalità, al premio alla nascita, all’assegno al nucleo familiare e gli assegni familiari e dalle detrazioni fiscali. L’Auu sarà inoltre finanziato da altri 6-7 miliardi aggiuntivi.

La doppia progressività per le famiglie

Ma il dato più critico, come si è mostrato, è la soppressione delle detrazioni per figli a carico, anche se si cerca di ammantare questa decisione carica di pesanti conseguenze sostenendo che essa avviene “nel quadro di una più ampia riforma del sistema fiscale”. La riforma è da tempo in cantiere, ma nei lavori delle commissioni parlamentari è evidente che il reddito “individuale” resterà l’unità impositiva dell’Irpef (dunque niente splitting, o quoziente familiare, applicati in altri Paesi europei). L’abolizione delle detrazioni fiscali in mancanza di una tassazione su base familiare crea forti criticità nei nuclei familiari con figli, è in contrasto con l’art. 53 della Costituzione italiana.

Quindi, è un dato di fatto che la progressività continuerà a colpire la famiglia italiana, con aliquote crescenti su quote di reddito non destinate a una condizione agiata, ma a coprire bisogni elementari dei figli, il mantenimento dei quali è prescritto dalla Costituzione. Per contrastare questa logica la soluzione migliore sarebbe una deduzione dall’imponibile pari a coprire il costo del mantenimento di ogni figlio, come del resto recitava una proposta originaria del Forum delle famiglie. Ma con l’Auu piove sul bagnato, perché questa misura sarà erogata in misura decrescente al crescere dell’Isee. Quindi per la famiglia varrà una doppia progressività, quella dell’Irpef e quella dell’Isee. I fautori della patrimoniale, inoltre, potranno rallegrarsi perché nell’Isee è presente anche un indice patrimoniale. Doppia progressività più patrimoniale: il piatto per la famiglia è servito! Per non parlare poi delle tariffe per cui, per esempio chi ha figli paga, grazie alla progressività, l’erogazione dell’acqua come se avesse una piscina nel suo appartamento.

C’è da dire anche che l’Isee mette in conto vertiginose economie di scala nel mantenimento dei figli, per cui il fattore di calcolo con l’aumentare dei figli decresce con grande velocità. Nella realtà le cose vanno in modo diverso: per portare in giro cinque figli oggi, fra seggiolini di sicurezza e altri aggeggi, ci vuole un pulmino, tanto per fare un esempio. In Francia, diversamente, la scala di equivalenza è 1 per ciascun adulto, per non penalizzare le coppie legali rispetto a quelle di fatto, 0,5 per i primi due figli e 1 (attenzione: 1!) dal terzo figlio in poi. In Italia quando si parla di figli si sostiene che assegni, detrazioni o deduzioni devono essere commisurati a una scala di equivalenza decrescente, per via delle economie di scale. Quando si parla di detrazioni edilizie, invece, non si tiene conto del numero di immobili che uno possiede. Queste scale decrescenti non valgono per spese di ristrutturazione, rifacimento di giardini, interventi per impianti di allarme, mobilio, ecc. Eppure questo tipo di interventi possono beneficiare soprattutto (se non soltanto) i redditi medio alti.

Figli a carico fino a che età?

L’importo dell’Auu al momento non è definito. Si ipotizza un valore massimo di 220 euro al mese per figlio, ma in misura decrescente a seconda dell’Isee. L’importo dovrebbe essere fisso per i primi due figli e prevedere una maggiorazione a partire dal terzo. Sono previste maggiorazioni anche in presenza di disabilità. L’Auu viene corrisposto fino a 18 anni. Questo limite è elevato fino a 21 anni solo nel caso in cui il figlio maggiorenne frequenti un percorso di formazione scolastica o professionale, un corso di laurea, svolga un tirocinio ovvero un’attività lavorativa limitata con reddito complessivo inferiore a un determinato importo annuale, sia registrato come disoccupato e in cerca di lavoro presso un Centro per l’impiego o un’Agenzia per il lavoro o svolga il Servizio civile universale. La legge delega prevede inoltre una riduzione dell’Auu dai 18 a 21 anni la cui misura deve essere anch’essa definita da prossimi Decreti legislativi.

La fascia 18-21 anni, in caso di studi accademici/formativi, è quella che genera un maggior peso economico per le famiglie, ragion per cui doveva essere prevista una maggiorazione, ma, visti i “paletti” fissati dalla Delega, ci troviamo ad auspicare che la riduzione sia almeno di valore percentuale più basso possibile. Peraltro l’età di 21 anni è limitativa, di solito il percorso formativo arriva a 25-26 anni. Da ricordare che la detrazione per figli a carico non aveva limiti di età, ma solo di reddito. Si spera almeno che l’Auu non concorra al reddito al di sopra del quale un figlio non è più a carico (2.840,51 euro), per poter beneficiare delle detrazioni per spese sanitarie, tasse per l’istruzione, ecc.

Famiglie con più figli penalizzate

Secondo simulazioni fatte da dall’Agenzia di Ricerche e Legislazione (Arel), circa un milione e 350mila famiglie dovrebbero rimetterci nel passaggio dalla vecchia alla nuova normativa, con una perdita annua mediana di circa 381 euro. Secondo il rapporto dell’agenzia: “Elaborazioni sull’insieme dei nuclei svantaggiati dalla riforma mostrano che le perdite si concentrano su alcune tipologie familiari piuttosto precise. Piccole perdite si registrano per nuclei con percettori di reddito di poco superiori all’area dell’incapienza, dove la detrazione per figli a carico comincia a giocare il suo ruolo di azzeramento dell’Irpef dovuta. I casi di perdite maggiori sono riconducibili di solito a tre gruppi di famiglie: quelle con molti figli a carico che spesso ottengono la detrazione di 1.200 euro per nuclei con almeno 4 figli, quelle che ricevono l’assegno per famiglie con almeno 3 figli, e quelle con minori in condizioni di disabilità, per le quali l’assegno al nucleo familiare può essere molto elevato”.

Nel periodo luglio 2021 dicembre 2021 è prevista un’applicazione provvisoria dell’Auu, con alcune limitazioni sulla possibilità di accedere al medesimo.

Nonostante queste criticità, conseguenza di un’impostazione non coerente con la sussidiarietà e la promozione del capitale sociale, non si possono negare alcuni aspetti positivi: gli importi, per un’ampia platea di destinatari, sono migliorativi rispetto a quanto percepito, fra detrazioni e altri assegni, con la normativa finora in vigore.

Ma il punto centrale è che si continua nell’ostinazione italiana a confondere la politica della famiglia con la politica delle povertà, con il risultato paradossale di accrescere la povertà, perché le famiglie più numerose saranno quelle che, nella realtà italiana, ci perderanno rispetto alla normativa precedente. L’investimento in figli, nella loro cura ed educazione, continua a non essere una spesa meritoria, come lo sono le ristrutturazioni edilizie, il rifacimento dei giardini, gli interventi per il risparmio energetico.

Una riforma efficace davvero dovrebbe prevedere una deduzione dall’imponibile commisurabile ai costi di mantenimento base delle persone a carico. Dovrebbe consentire la detrazione dall’imposta lorda, come peraltro avviene in Francia, delle spese per i figli dalla babysitter all’asilo nido fino all’università. E non in modo simbolico o parziale: il 19% o la ridicola quota di 250 euro fissi. La possibilità di detrarre per intero le spese di babysitter e asilo nido, assieme a una congrua deduzione per le spese di produzione del reddito, sarebbe davvero un sostegno non assistenzialistico per le famiglie in cui entrambi i genitori devono lavorare.

Gli assegni familiari in un sistema equo ed efficace dovrebbero essere semmai lasciati a chi, per mancanza di capienza fiscale, non può dedurre costi standard o detrarre costi effettivi, lasciando, come avviene altrove in Europa, la scelta alle famiglie.

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