La legge 46/2021 delega il Governo ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore, uno o più decreti legislativi necessari per riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e universale. Un beneficio economico attribuito a tutti i nuclei familiari con figli a carico, nell’ambito delle risorse disponibili, per favorire la natalità, sostenere la genitorialità e promuovere l’occupazione, soprattutto femminile. In sintesi: l’accesso all’assegno è assicurato in modo universale per ogni figlio a carico; l’ammontare è modulato sulla base della condizione economica del nucleo familiare, (ISEE); l’assegno non limita la richiesta di altre prestazioni sociali agevolate, previste da altre norme, in favore dei figli con disabilità. È compatibile con altre misure in denaro erogate dalle regioni, dalle province autonome e dagli enti locali ed è concesso come forma di credito d’imposta o di erogazione mensile di denaro. In caso di separazione spetta al genitore affidatario. Condizione fondamentale: all’attuazione della norma si provvede nei limiti delle risorse del “Fondo assegno universale e servizi alla famiglia”, comma 1, articolo 3.
La legge sull’Assegno unico
Si tratta di una legge quadro molto complessa, in cui alla chiarezza dei fini: favorire la natalità, sostenere la genitorialità e promuovere l’occupazione femminile, non sempre si univa una adeguata chiarezza delle modalità attuative. Per esempio, alcune perplessità, già emerse nel dibattito parlamentare, esplosero davanti alla richiesta di Inca Cgil e Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione).
Partendo da un caso particolare, chiesero che l’INPS riconoscesse l’Assegno Unico e Universale anche ai figli minori dei cittadini stranieri con permesso di soggiorno in attesa di occupazione. Il Tribunale di Trento, accogliendo la loro richiesta, nel 2023 condannò l’Inps per condotta discriminatoria: l’assegno unico universale per i figli spetta anche ai cittadini stranieri che, in possesso dei requisiti di reddito e residenza, hanno un permesso di soggiorno in attesa di occupazione. I fatti riguardavano una madre straniera, residente in Trentino, con un permesso di soggiorno in attesa di occupazione. La donna si è visto negato il beneficio dell’assegno perché, sulla base di una circolare Inps, su un punto non specificato nella legge, “la persona straniera con figli ha diritto all’assegno unico universale, solo se in possesso di permesso di soggiorno per lavoro”.
La donna però non aveva più il permesso di soggiorno per lavoro, proprio perché aveva perso il proprio lavoro. Il Giudice definì la decisione dell’Istituto discriminatoria, obbligandolo a riconoscere alla signora l’assegno universale, pari a 335 euro al mese, a decorrere dalla data di presentazione della domanda, cioè dal marzo 2022. Non solo. Dal momento che il ricorso era stato patrocinato da Asgi, (Associazione studi giuridici sulla immigrazione), che agisce a tutela di interessi collettivi, la decisione del Tribunale assume valenza estensiva per tutte le cittadine e i cittadini stranieri che si trovano nella medesima condizione della donna, che si era rivolta al patronato Inca, cioè tutte le persone che, pur avendo un permesso di soggiorno, sono in attesa di lavoro.
Di conseguenza l’Inps è obbligata a modificare la propria circolare e a riesaminare tutte le domande rigettate per i cittadini in possesso di permesso in attesa di lavoro. Per il giudice, sulla base della direttiva europea 2011/98/UE, la circolare Inps è discriminatoria perché viola il principio di parità di trattamento fra cittadini dell’UE e stranieri soggiornanti in UE, titolari di permesso unico lavoro, un permesso superiore a sei mesi, tra cui rientra il permesso in attesa di occupazione. È la prima sentenza in Italia di questo tipo e ha valenza su tutto il territorio nazionale.
La condanna europea
La Commissione europea ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione europea per non aver rispettato i diritti dei lavoratori mobili di altri Stati membri dell’UE per quanto riguarda le prestazioni familiari loro concesse. I lavoratori che non risiedono in Italia per almeno due anni o i cui figli non risiedono in Italia non possono beneficiarne.
Secondo Bruxelles è “una discriminazione e una violazione del diritto UE in materia di sicurezza sociale e di libera circolazione”. Uno dei principi fondamentali dell’UE “è che le persone siano trattate equamente senza alcuna distinzione basata sulla nazionalità”. L’idea di base è che i lavoratori mobili dell’Unione europea contribuiscono allo stesso modo al sistema di sicurezza sociale e pagano le stesse tasse dei lavoratori locali, per cui hanno diritto alle stesse prestazioni di sicurezza sociale”.
Secondo questo principio i lavoratori mobili dell’Ue che lavorano in Italia, pur senza risiedervi, coloro che si sono trasferiti di recente in Italia o coloro i cui figli risiedono in un altro Stato membro, dovrebbero ricevere le stesse prestazioni familiari degli altri lavoratori in Italia. L’esecutivo UE ritiene che l’esclusione dei lavoratori mobili stranieri renda la legge italiana in questo punto incompatibile con il diritto comunitario. Inoltre, secondo il regolamento Ue è proibito “qualsiasi requisito di residenza per ricevere prestazioni di sicurezza sociale come le prestazioni familiari”.
La Commissione europea aveva già inviato una lettera di costituzione in mora all’Italia nel febbraio 2023, a cui ha fatto seguito un parere motivato nel novembre 2023. La risposta dell’Italia, tuttavia, non è risultata soddisfacente, per cui è stata presa la decisione di deferire il caso alla Corte di giustizia Ue. Per l’ex ministra della Famiglia Elena Bonetti la Commissione Europea contesta punti già superati in un decreto legislativo, seguito alla legge delega. Il decreto attuativo precisava che non era richiesta la residenza dei figli con il genitore ma solo che fossero a carico, come in tutte le prestazioni sociali. E neppure che fossero residenti in Italia da due anni, purché avessero un contratto di lavoro almeno semestrale.
Italia presa di mira
La condanna dell’Italia in un momento delicato come l’attuale sia per quel che riguarda il nuovo assetto dell’Europa, con la definizione di ruoli e competenze, sia per quanto riguarda criteri e regole nell’ambito delle politiche migratorie, lascia molto perplessi. Non risulta che in altri Stati dell’UE i diritti dei lavoratori siano rispettati con la stessa attenzione. L’Italia ha limiti e fa errori, ma a volte sembra proprio che nei suoi confronti ci sia una sorta di accanimento nel lasciarla sola a gestire flussi migratori senza limiti, nel tentativo di difendere diritti comprensibili, ma non sempre esigibili nella misura in cui si vorrebbe. Almeno sulla base di quanto si afferma all’art 3, comma 1 della legge “Fondo assegno universale e servizi alla famiglia”: all’attuazione della norma si provvede nei limiti delle risorse.
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