È oggettivamente ancora presto per capire davvero quale sarà il posto della famiglia nell’agenda del governo Meloni; eppure la domanda va affrontata da subito, provando ad interpretare i segnali espliciti finora inviati da premier, governo e maggioranza– pochi, ma non insignificanti.
In primo luogo non si può non fare riferimento al discorso programmatico in Parlamento di Giorgia Meloni, con alcuni impegni concreti che sarà semplice verificare nell’immediato: ha parlato di aumentare gli importi dell’assegno unico universale, di sostegni alle giovani coppie per i mutui per l’acquisto della prima casa, oltre ad aver ribadito un impegno per una riforma fiscale a misura di famiglia, parlando di “quoziente familiare”, indicativamente sul modello francese, per quanto si possa capire oggi. Ha poi richiamato la necessità di favorire la conciliazione famiglia-lavoro, sostenendo al contempo l’occupazione femminile, e impegnandosi a favorire i Comuni per gli asili nido (gratuiti, parrebbe) e con orari di apertura più compatibili con gli orari di uffici, aziende e negozi.
Fin qui tutte buone notizie, verrebbe da dire: azioni concrete, mirate, specifiche, misurabili nei tempi e nelle quantità. In effetti, la vera sfida non è enunciare queste priorità, quanto piuttosto verificarne tempi e modi di attuazione, e soprattutto le reali dimensioni economiche dei vari impegni. Tanto più che queste azioni sono in sostanza ormai condivise in modo abbastanza trasversale, tra quasi tutti i partiti e le culture politiche oggi attive in Parlamento, e potrebbero porsi anche in una certa continuità con alcune azioni del governo precedente – che, non dimentichiamolo, oltre ad aver introdotto l’assegno unico, ha appena approvato un Piano nazionale famiglia, con priorità non troppo lontane da questa lista.
In concreto, piuttosto, vedremo quante di queste misure sapranno intercettare i fondi del Pnrr, che è il vero serbatoio di risorse economiche per tutte le politiche pubbliche, la vera “miniera” da cui estrarre risorse in questi anni, in cui però ci saranno “tanti minatori”, per tante diverse attività, e in cui non è affatto scontato che sapremo scavare nei posti giusti, con rapidità ed efficienza. Fuor di metafora, le risorse ci sono, ma saprà questo governo indirizzarle rapidamente, in quantità adeguate e in modo efficace, a favore di politiche familiari adeguate?
Un secondo elemento di concretezza riguarda la scelta del modello organizzativo del governo e delle persone al suo interno. In particolare rimane confermato un ministero con delega alla famiglia, in continuità con il precedente assetto, ma con la doppia novità del tema “natalità”, fin dal nome stesso del ministero (e quindi della delega connessa), e della scelta di Eugenia Roccella in questa casella. Due scelte dal forte indirizzo politico, che hanno infatti innescato un forte contenzioso ideologico – e qui sì che si è innestata una certa “discontinuità”.
In questo caso i segnali di novità sono forti – e complessivamente condivisibili. Rispetto al tema “natalità”, stupisce un po’ chi ha criticato questa esplicita sottolineatura. Ormai da qualche anno è assolutamente bipartisan e trasversale la consapevolezza che la questione demografica è una delle priorità e criticità più esplosive per lo sviluppo complessivo del sistema Paese (a partire dallo stesso presidente Mattarella – 12 maggio 2022, messaggio agli Stati generali della natalità). Averlo messo in chiaro fin dalla definizione del ministero appare quindi “solo” un prezioso e virtuoso elemento di chiarezza.
Anche la scelta di Eugenia Roccella appare elemento di coraggiosa chiarezza, considerata la sua biografia personale e politica, di specchiata onestà e coerenza. Già (e tuttora) femminista, portavoce del primo Family Day, nel 2007, insieme a Savino Pezzotta, coerente nel condannare alcune derive antropologiche – come l’utilizzo del corpo di una donna nella maternità surrogata, troppo spesso ridotta a merce da acquistare, lei e il figlio in grembo. Una scelta chiara, che ha subìto un immediato, ingeneroso e ideologico fuoco di sbarramento “preventivo” (sarebbe più preciso dire “pregiudiziale”), a conferma che sugli aspetti antropologici in gioco attorno alla questione “famiglia” non bisogna dare niente per scontato.
Al di là delle feroci e pregiudiziali discussioni sulla legge 194 (altro nodo controverso nella storia di questo Paese, troppo spesso ostaggio del gioco al massacro dei partiti), anche per Eugenia Roccella il criterio più serio di valutazione saranno le scelte, le priorità operative, la capacità di agire con efficacia. Ovviamente molte altre caselle saranno importanti, rispetto alle esigenze delle famiglie, come le scelte in tema di lavoro, scuola, salute, e anche la presenza di un ministero per la Disabilità è un segnale per niente banale. Peraltro non si può non ricordare che le politiche familiari più importanti passano comunque per il ministero dell’Economia.
In sostanza, quindi, le politiche per la famiglia oggi potrebbero beneficiare di un duplice movimento di continuità e discontinuità, a partire dalle azioni di un nuovo governo che, oggettivamente molto diverso culturalmente dai progetti politici dei governi precedenti, può sicuramente introdurre alcuni elementi di innovazione rispetto al sostegno alla famiglia, ma potrebbe anche avvantaggiarsi di alcune soluzioni di continuità, attorno alle quali il consenso trasversale tra i diversi partiti potrebbe rimanere elevato, come il rafforzamento dell’assegno unico, o le politiche di conciliazione, o l’ampliamento dell’offerta di asili nido, soprattutto nelle aree del Paese meno coperte da questo servizio. Del resto “la famiglia non è né di destra né di sinistra”, ma è una infrastruttura relazionale diffusa che rimane insostituibile per la coesione sociale.
Rimane comunque, da ultimo, un certo disagio, una sottile inquietudine, un campanello d’allarme, ascoltando gli allarmati messaggi su calo demografico, invecchiamento della popolazione, crisi del sistema pensionistico, spesso insieme a convinti ed enfatici “attestati di stima” verso le famiglie italiane e verso la loro capacità di adattamento e resistenza – la ormai mitica e già un po’ usurata “resilienza” – che sempre più frequentemente echeggiano sulla stampa, in televisione, nelle aule parlamentari. Oggi finalmente della famiglia si parla spesso, ma non sempre per il suo valore in sé, come spazio di umanizzazione, ma più spesso come un puro strumento, da asservire ad un “bene pubblico” definito da altri.
Al di là delle scelte di Governo, in che stagione culturale stiamo per entrare quindi, oggi? In quella in cui viene riconosciuta la vera oggettività sociale della famiglia, in cui la società ha come obiettivo il sostegno alla libertà delle famiglie e dei loro progetti, oppure nella stagione della “strumentalizzazione della famiglia”, in cui ci si accorge che la famiglia è importante solo perché (e finché) serve alla società, solo perché diventiamo sempre più vecchi, solo perché non si fanno più figli, o peggio, solo perché si consumano meno prodotti?
Forse oggi il vero banco di prova per una sostanziale discontinuità è proprio culturale, e riguarda il grande nodo della sussidiarietà, vale a dire la capacità di pensare – e attuare – politiche familiari che non considerino le famiglie come puro “luogo di produzione e riproduzione delle nuove generazioni”, come “strumento per la società”, ma piuttosto le valorizzino come un vero e irrinunciabile ambito di senso, libertà e significato di vita, luogo privilegiato per proteggere la dignità e l’integrità di ogni vita, spazio educativo, generativo e rigenerativo della società, da promuovere e rispettare nella sua intima essenza, fatta di libertà e legami, di dono reciproco, di affetto, cura e corresponsabilità.
Servono quindi politiche familiari diverse, per “ripartire dalla famiglia”, con un modello di empowerment (restituire potere alle famiglie), anziché con il modello del deficit, che vede la famiglia come luogo bisognoso e incapace, che la società e lo Stato devono e possono “assistere”. Spetterà poi alle famiglie stesse, alle associazioni familiari e alla società civile chiedere politiche familiari promozionali e non assistenziali, e vigilare su questo rischio, per non svendere “per un piatto di lenticchie” la soggettività e la libertà di ogni famiglia.
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