La riforma fiscale e il peccato originale di non considerare la famiglia come unica unità impositiva e dunque destinataria di una giusta misurazione dl prelievo fiscale in base alla capacità contributiva, è il vero problema che l’assegno unico non ha affatto sistemato.
Nonostante la Consulta abbia più volte sottolineato come l’ordinamento tributario italiano contenga, rispetto a questo fondamentale profilo, regole non solo inefficienti, ma che producono delle vere e proprie sperequazioni specie “in danno delle famiglie monoreddito e numerose” in quanto il nostro ordinamento si fonda su una tassazione di tipo individuale rispetto alla quale l’incidenza della famiglia ai fini contributivi viene considerata solo attraverso una disordinato e mutevole meccanismo di detrazioni e deduzioni che, oltre a creare inefficienze, alimenta anche i problemi di complessità e di scarsa trasparenza dei quali soffre in maniera a oggi irreversibile l’intero sistema fiscale.
Andando oltre una rimodulazione dell’Irpef la delega fiscale della Legge di bilancio 2022 sembrava contenere un coraggio finanziario che prevedesse una revisione dell’imposizione sui redditi, contenente l’intervento su una realtà economica della famiglia. Invece niente. L’assegno unico, in linea con la tradizione dei precedenti interventi, non guarda “alla famiglia” nel suo complesso, bensì a uno suo profilo, relativo alla presenza dei figli e del condizionamento che il loro mantenimento comporta. Il che ha un ruolo rilevante, ma non certamente determinante per il necessario ristabilimento dell’equità fiscale in materia.
La famiglia deve e può diventare l’obiettivo del supporto tributario, riferimento privilegiato per l’apprezzamento di una capacità contributiva nella sua corretta determinazione, determinato non solo dal fatto che al suo interno viene assicurato il sostentamento dei componenti che non producono un reddito (i figli), ma anche (e in positivo) dalla considerazione che siamo di fronte a una comunità che assicura la soddisfazione di bisogni individuali ai quali dovrebbe altrimenti sovraintendere lo Stato, impegnando la spesa pubblica come succede per la cura degli anziani e dei disabili.
Se si tenesse conto appunto di ciò che la famiglia come braccio destro del welfare sostiene si realizzerebbe una migliore applicazione della progressività dell’imposizione evitando penalizzazioni odierne in presenza di nuclei monoreddito o nei quali l’imponibile non è “uniformemente” distribuito tra i vari componenti che producono la ricchezza della quale tutti poi beneficiano. Una riforma dunque che persegua la necessità di sostenere principi di maggiore equità ed efficienza dei meccanismi di tassazione, una riforma che non disincentivi per esempio il lavoro femminile sia dipendente o autonomo che riconosca il lavoro di cura domestico inteso come assistenza concreta ai figli agli anziani ai disabili.
Una riforma che preveda agevolazioni fiscali per l’ampliamento robusto dei fondi bilaterali per sostenere periodi di congedo ai fini contributivi e retributivi per colei o colui che si avvale del congedo, insomma assumere più donne potrebbe anche significare anche avere più figli, ma ciò implica un regime di tassazione che cambi completamente: oggi nel sistema di imposizione basato sui redditi “la famiglia” non è annoverata tra i soggetti passivi ai quali può essere considerata una propria capacità contributiva ai fini reddituali rispetto a limitate o inadeguate detrazioni o deduzioni operando così sul piano fiscale sulla base del reddito in modo adeguato e non sulla base di un assegno unico cosiddetto universale.
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