L’Assolombarda sta alla Confindustria come la California sta agli Usa. Anche se i tempi sono cambiati e Milano e la Lombardia hanno molto diversificato la loro attività produttiva, rimangono le capitali del Pil, il contesto urbano economico finanziario e dei servizi che non ha nulla da invidiare con altri famosi bacini produttivi sparsi per l’Europa, il cui dominio fu tra le cause di ben due guerre mondiali nel secolo scorso. Alle Assemblee dell’Assolombarda vengono invitati i Premier in carica: l’accoglienza che viene riservata al loro intervento e il loro interloquire col presidente pro tempore della Confindustria, che non manca mai agli eventi della più importante organizzazione territoriale, costituiscono un segnale di gradimento o di critica sempre politicamente corretta e senza sbavature eccessivamente polemiche dell’attività dell’esecutivo.
Quando fu la volta di Giuseppe Conte in versione giallo-verde, Carlo Bonomi era Presidente di Assolombarda. Conte fece tante promesse e si dilungò in apprezzamenti del mondo dell’impresa. Bonomi non gli risparmiò una critica puntuale con queste parole: “No a uno Stato che torna a prepensionare aggravando il furto ai danni dei più giovani. Nessun dato empirico comprova l’ipotesi che un pensionato anzitempo lasci il suo lavoro a un disoccupato giovane. Al contrario, i dati dei Paesi Ocse mostrano che a crescere di più è chi ha insieme più occupati giovani e anziani, senza nessun automatico effetto sostitutivo. E allora spendiamo i miliardi destinati ai prepensionamenti negli Its e nelle Università professionalizzanti, che ci servono come il pane per risolvere il mismatch dei tecnici che oggi mancano e che le nostre imprese non riescono a trovare! Vogliamo politiche attive del lavoro, non uno Stato maxi fabbrica di persone subalterne ai suoi trasferimenti”. Era evidente la critica alle due misure che avevano caratterizzato l’iniziativa del Conte 1: Quota 100 e il RdC.
L’anno dopo Bonomi, da Presidente della Confindustria, si trovò di fronte la versione ribaltata del del Conte 2 e fu ancora più esplicito: “Mi rivolgo a lei, Signor presidente del Consiglio, esprimendo l’opinione che ho raccolto in tutta la nostra associazione, in queste ultime settimane. Sappia, che noi apprezziamo vivamente l’impegno che ha assunto nel suo discorso parlamentare per la fiducia. L’impegno a un nuovo tono. Di profondo rispetto istituzionale. Di grande cura nell’evitare polemiche divisive. Di deliberata costruttività nei confronti dell’Europa e del rispetto delle sue regole. Di ascolto vero con le parti sociali: impresa, sindacati e società civile. È quanto avevamo chiesto invano, nel corso del 2018 e 2019. Però, Signor Presidente – ribadì Bonomi -, vogliamo essere con lei del tutto chiari. Noi apprezziamo i nuovi propositi. Ma non dimentichiamo quello che abbiamo visto e sentito nei 14 mesi precedenti. Non possiamo dimenticare che quel Governo ci ha promesso di cancellare la povertà, invece ci ha restituito alla stagnazione”.
Per Giorgia Meloni la partecipazione all’Assemblea, che Assolombarda ha tenuto nello stabilimento di Camozzi Group a Milano, la ex Innocenti, sito industriale dal grande valore simbolico, costituiva una sorta di ingresso in una società da cui era sempre stata esclusa. L’incontro avveniva in una fase cruciale del Governo e della maggioranza. Anche se i voti per la coalizione di destra continuano a prevalere nelle urne, la luna di miele con il Paese volge al termine e si profila una convivenza in cui, come in ogni rapporto, si giudicano i fatti e i comportamenti. Così un Governo che mostra un’evidente difficoltà a gestire il Pnrr, non poteva sperare in quell’apoteosi con cui era stato accolto Mario Draghi in veste di presidente del Consiglio (peraltro super Mario, in quell’occasione, aveva letto un discorso di notevole spessore, accogliendo la proposta del Patto triangolare (Governo, imprese e sindacati) che era stato al centro della relazione di Carlo Bonomi, ma che era sfiorita, come una rosa, in poche ore per mano di Maurizio Landini che aveva declinato l’offerta).
Giorgia Meloni ha azzeccato il tono. Da tempo la Confindustria lamenta l’ostilità diffusa nel Paese contro il sistema delle imprese. La presidente del Consiglio ha cambiato approccio sottolineando di avere scelto di essere a Milano “perché è doveroso sottolineare l’importanza dall’industria manifatturiera italiana a livello europeo e mondiale”. Dopo anni in cui i media, i talk show fanno il verso al catastrofismo della Cgil e della Uil, che arriva fino alla rappresentazione di una società e di un mondo del lavoro che esistono solo nella ideologia dei leader, Meloni ha parlato di “numeri del settore incontrovertibili” e addirittura “sorprendenti” quando si viene al territorio rappresentato dall’associazione degli industriali di Milano e dintorni. E ha lamentato che “nonostante questi numeri, assistiamo a una tendenza inspiegabile a sminuire il portato dell’industria italiana, mentre si elevano a punto di riferimento realtà esterne ai nostri confini nazionali dai quali non avete – dice alla platea – nulla da imparare. Semmai, avete qualcosa da insegnare…”.
Rassicuranti i toni di Meloni sulla transizione ecologica sottoposta a istanze fine a se stesse, incapaci di coniugare i temi dell’ambiente e dello sviluppo, a costo di sacrificare il secondo in nome di una idea fanatica del primo. Gli osservatori, poi, hanno potuto notare qualche piccola differenza tra Bonomi e Meloni sulla questione del salario minimo, nel senso che la Confindustria ha dimostrato una maggiore attenzione al problema, pur rifiutandone l’introduzione per legge. Sarebbe il caso di riflettere su questa disponibilità, perché a conti fatti, alla grande impresa non fa paura un salario legale di 9 euro lordi. In questi giorni qualcuno ha ricordato l’accordo Agnelli-Lama sul punto unico di scala mobile, arrivando alla conclusione che a guadagnarci erano stati i padroni, perché quell’operazione in tempi di grande inflazione trasformò l’indennità di contingenza nella quota di gran lunga prevalente della retribuzione globale e i sindacati persero il ruolo di autorità salariale, in quanto gli incrementi erano l’effetto di un automatismo, come sarebbero i 9 euro lordi indicati nel pdl delle opposizioni (IV esclusa).
I 9 euro preconizzati rappresentano l’87% del salario mediano. È facile capire che ai sindacati resterebbero ben pochi margini di contrattazione. Prima o poi il salario minimo prederebbe il posto del contratto nazionale di categoria, perché – come si suol dire – due deretani non possono occupare la stessa sedia. E stare comodi.
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