Si è alzato il sipario per palesare un dramma; sotto il panneggio rosso di foggia barocca, incombe sulla scena una morte impossibile: quella della Vergine! Sì, è morta la madre… di più: è morta Sua madre, quella che da sempre i discepoli avevano considerato anche madre loro; quella che, per ciascuno di loro, rappresentava l’ultima forma tangibile di Lui presente: era morta la madre del Figlio, la madre di Gesù, era morta Maria. 



Intorno a quel corpo ormai esangue, il Caravaggio colloca la fitta corona dei discepoli che, insieme alla Maddalena, fanno ala disperati al cadavere, gonfio di luce, della Madonna. Partecipano così, annichiliti e impotenti, a questo nuovo straziante distacco, a questa irrimediabile separazione.

Esulteranno nel Signore
i corpi umiliati nella morte



Recita così un’antifona dell’ufficio dei defunti, come a voler gridare, insieme all’urlo di un dolore lacerante, la certezza mendicata che la fede suggerisce ed impone. 

E tuttavia sordi singhiozzi scuotono i discepoli in tutta la persona: tornati all’improvviso bambini, piangono senza vergogna la perdita inconsolabile della mamma.

Non è trascorso un secolo dalle Assunzioni di Tiziano: l’una, altrimenti nota come pala dell’Assunta, campeggia sull’altare maggiore nella chiesa dei Frari a Venezia (1516); l’altra, forse meno conosciuta, è fruibile sopra un altare laterale nella cattedrale di Verona (1535).



Contravvenendo ad ogni codificato canone, Caravaggio rompe con la tradizione e dipinge, per la Vergine (1605), una morte totalmente umana e reale; una morte tragica e scandalosa dove, alla gloria dei cieli aperti e degli angeli festanti tra nuvole di cartapesta, sostituisce un ruvido tavolaccio che ospita il cadavere sfatto di una popolana qualunque.

“Dipinta per la cappella dell’avvocato Cherubini in Santa Maria della Scala, in Trastevere” – precisa il Longhi – “fu rifiutata, anzi ‘levata’ da quei ‘buoni padri’ tanto che non si concesse quasi a nessuno di vedere quel quadro, diciamo pure, sospetto” (cfr. R. Longhi, Caravaggio, a cura di G. Previtali, Editori Riuniti, Roma, 1982).

E tuttavia, nonostante le sue opere fossero di frequente rifiutate, il Merisi procede incurante nella serie dei suoi soggetti: proprio ostentando i corpi, egli ne esalta quel drammatico e affascinante realismo che niente conserva delle oleografie di maniera o della titanica monumentalità di certi personaggi michelangioleschi.

Nessuno d’altra parte prima di lui, né tantomeno dopo, oserà mai trattare siffatti temi così arditamente.

È ancora la luce a dominare anche in questo dipinto: una luce radente che aggredisce dapprima la vetusta calvizie dei discepoli per dilagare poi sul corpo senza vita della Madonna così da incendiarne l’abito scarlatto che tutta la avvolge evidenziandone lo scandaloso gonfiore; si posa infine sul dorso reclinato della Maddalena che, raccolta nel suo dolore silenzioso e pudico, chiude la scena restituendole un perfetto equilibrio.

Se la tradizione ortodossa da sempre ha identificato nella Dormitio Virginis la conclusione del percorso umano della madre di Gesù, il Caravaggio ha scelto qui di oltrepassare anche questa soglia per immergere sé stesso e noi in ben altra esperienza.

Ma non ci sembra, il suo, un oltraggio al dogma dell’Assunta. In questa morte si nasconde infatti una speranza sicura come sicuro è il germe di eternità che vi si cela. Muore, la Vergine del Caravaggio, perché ogni morte gridi con più forza il compiersi del proprio destino ed ogni sacrificio, mentre brucia l’effimero dell’apparenza, possa restituire all’essere il fiotto misterioso della propria origine.