Il decreto Pnrr per il rafforzamento della Pa, l’ennesimo, i cui contenuti restano ancora da dettagliare, rappresenta bene l’emergenza, l’ansia e il disordine delle idee di chi è ridotto davvero con l’acqua alla gola. I 20 anni trascorsi tra tetti o blocchi delle assunzioni, cancellazioni dei finanziamenti alla formazione e all’aggiornamento, blocchi alla contrattazione decentrata, hanno messo in ginocchio la macchina amministrativa dello Stato.
Si è giunti, purtroppo, prima ad affrontare la pandemia, poi a provare a rilanciare il Paese fiaccato col Pnrr, con una Pa vecchia, obsoleta. Pandemia e Pnrr sono subentrati proprio nel cuore di una fuoriuscita di circa 500.000 dipendenti pubblici, largamente prevista, ma rispetto alla quale non era stato immaginato, prima della micidiale ondata del Covid, alcun argine.
Le misure adottate fin qui per provare a rimpinguare i ranghi, ringiovanire l’età media e acquisire nuove competenze hanno fatto flop. Le decine di migliaia di “esperti” che si sarebbero dovuti reclutare sono poche migliaia: del resto, l’offerta di un rilevante carico di responsabilità a fronte di contratti a termine, stabilizzabili per non oltre il 40%, visti i trattamenti economici, non risultava allettante. E se è vero che nel 2022 le assunzioni sono state circa 170.000, le cessazioni dal servizio a loro volta hanno toccato quota circa 155.000: di fatto, si è tratto di una semplice gestione del turn over, oltretutto senza troppa innovazione sulle competenze.
Il decreto Pnrr non può certo cambiare magicamente lo stato delle cose. Tuttavia, le idee contenute danno il segno di un Legislatore, qualsiasi sia la maggioranza pro tempore, che agisce senza un vero piano logico, ma con mosse dettate dalla fretta, da piccoli obiettivi specifici, da improvvisazione.
Si pensi all’eterna riproposizione dell’idea di sopperire alle carenze di personale incaricando pensionati, sia pure entro il 10% dei fabbisogni e per massimo due anni. Qual sia la coerenza tra l’obiettivo di acquisire nuove competenze e ringiovanire i ranghi, da un lato, e il richiamo in servizio di dipendenti anziani, talmente anziani da essere andati in quiescenza, è ovviamente difficile comprendere.
La fretta e la foga, poi, contribuiscono alla riesumazione di un evergreen: la stabilizzazione dei precari. È dal lontano 2007, ormai, che quasi ogni anno iniziative normative, tutte simili ma diverse, propongono strumenti per assumere a tempo indeterminato personale assunto a termine, a riprova che la Pa fa fronte a croniche vacanze di organico come può, cercando di slalomeggiare tra ostacoli normativi (tetti alle assunzioni) e finanziari (tetti di spesa). Nel privato, assumere con contratti a termine su fabbisogni continuativi comporta condanne in sede civile alla trasformazione dei contratti e risarcimenti del danno, pur essendovi molta maggiore flessibilità per i datori. Nel pubblico, l’articolo 36, comma 2, del Testo unico sul lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (d.lgs 165/2001) vieta del tutto attivare contratti precari per far fronte a necessità durature nel tempo. Ma l’assenza totale di controlli non consente in alcun modo di arginare il fenomeno e così, periodicamente, si producono ondate di stabilizzazioni che guardano poco per il sottile. La proposta è stabilizzare chi abbia almeno 36 mesi di servizio con un “colloquio” selettivo. Ma di accertare l’adeguatezza delle competenze e delle funzioni svolte alle necessità del Pnrr non se ne parla nemmeno.
E quando si adottano decisioni per “imbarcare” migliaia di lavoratori non manca mai l’occasione per consentire alla politica di fare un po’ da ufficio di collocamento per il personale di propria “fiducia”. Già con un altro “decreto Pnrr”, il d.l. 13/2023, è stato consentito agli enti locali in dissesto di mantenere il rapporto con i dipendenti degli staff degli organi politici. Il nuovo decreto adesso si rivolge alle regioni, consentendo loro espressamente di applicare l’articolo 14 del d.lgs 165/2001, norma che permette la creazione di “uffici di diretta collaborazione” per gli organi di governo. Un’imperdibile possibilità di far assumere in base ad appartenenze e tessere, formalmente connessa al Pnrr, ma che col Pnrr non può avere nulla a che vedere, visto che al personale degli staff o degli uffici di diretta collaborazione non è consentito di gestire direttamente attività amministrative.
Gli stessi interrogativi si pongono osservando la norma che consente a presidenti di regione, assessori e sindaci di assumersi e incaricarsi reciprocamente, in particolare proprio negli uffici di staff con incarichi retribuiti, purché non nel medesimo ente: quale sia il giovamento che ne tratta la Pa ai fini del conseguimento degli obiettivi del Pnrr è impossibile comprendere. Di fatto, “Pnrr” sempre più diviene “omnibus”, l’occasione di inserire norme abborracciate e disordinate, la cui inidoneità ad affrontare e risolvere i problemi è peraltro sovente già stata collaudata.
E se è vero che non è immaginabile risolvere in pochi mesi e con decreti “magici” problemi creati in 20 anni di gestione non meditata della macchina amministrativa, altrettanto innegabile è che a insistere su scelte molto legate all’improvvisazione e lontane dall’affrontare le questioni di sistema non si fa molta strada.
Per esempio: uno dei fardelli più pesanti posti alle assunzioni e alla contrattazione della Pa è il tetto complessivo alla spesa per il salario accessorio posto dall’articolo 23, comma 2, del d.lgs 75/2017, la riforma “Madia”, un altro dei tanti flop registrati dagli intenti di agire sulla macchina pubblica. Questo tetto è strato previsto “nelle more” dell’armonizzazione dei trattamenti economici tra i vari comparti, alla quale avrebbero dovuto provvedere, da 6 anni, i contratti nazionali collettivi. Di tale armonizzazione non si vede nemmeno l’ombra, ma il tetto resta a complicare ogni politica di intervento sul personale. Resta, però, con una quantità ormai vicino alla dozzina di deroghe: e anche lo schema di decreto Pnrr che il Governo sta tentando di portare avanti ne propone almeno altre due.
Cosa ci stia a fare nell’ordinamento una norma chiaramente di ostacolo a scelte ponderate ed efficaci sulla gestione del personale pubblico, derogata da decine di norme di legge e persi contrattuali, nessuno lo capisce. Eppure, questo peso resta lì, come simbolo di riforme inefficaci, che si moltiplicano e avviluppano, senza mai dare la vera necessaria svolta.
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