Esistono delle variabili imponderabili che possono generare disastri o, indifferentemente, lanciare verso l’Empireo della gloria. Si tratta di sottili, impalpabili perfino, percezioni, di sensazioni indefinibili che finiscono però per divenire i motori (immobili o mobili, a seconda che si sia o meno aristotelici) di vere e proprie rivoluzioni.
L’economia è una scienza, si dice e si ripete: fatta di aride cifre, di numeri, di linee di sviluppo, di grafici, di investimenti mirati. Ma se al posto di investimenti ci mettessimo ‘scommesse’ e se invece di ‘mirati’ usassimo ‘prudenti’, non diremmo forse la stessa cosa? L’economia per noi, piccoli osservatori, è una scienza tanto quanto può esserlo il concetto di noosfera. Essa ha tanta scientificità quanto l’idea di Empireo o quella di coelum philosophorum.
Di ciò ragionavamo l’altro giorno sorseggiando insieme un ottimo genepì e ascoltando le sagge considerazioni di un giovane albergatore valdotain, uno di quelli che non possiedono un hotel a cinque stelle o extra-lusso, che non si possono permettere le grandi pubblicità, ma che con le sue 14 camere arredate con oggetti di legno fatti da lui, attira ogni anno un numero di turisti belgi, francesi, tedeschi e italiani sufficiente ad assumere due persone e a dare da mangiare alla sua famiglia. Non faceva ragionamenti astrusi e poco sapeva di curve di sviluppo o di macro-economia. In compenso batteva insistente sul tasto della fiducia: oggi, diceva, devo pensare alla stagione invernale. Il mio problema, però, non sono la neve o il rischio imprenditoriale, ma cercare di immaginare quali norme dovremo rispettare da qui a qualche mese. Non parlo di grandi scelte, sospirava, ma di banalità quotidiane. Come posso fidarmi, sussurrava, di un sistema che alla sera emana disposizioni da attuare già il mattino seguente e che contraddicono quel che fino a ieri era stato scritto e sostenuto? Come faccio a fidarmi e a prenotare rifornimenti, a sottoscrivere contratti, ad assumere gente? Ecco se potessi fidarmi …, concludeva sconsolato.
Fidarmi, fidarsi: l’impressione è che la benzina necessaria a far ripartire il motore della nostra economia sia proprio quell’imponderabile, impercettibile, indefinibile sensazione che il domani andrà meglio, che l’orizzonte si schiarirà. Se c’è fiducia si riprende. In caso contrario si affonda.
Mi si dirà: vabbè, se vuoi filosofeggiare tutto è lecito, ma sul tappeto ci sono questioni concrete, la dura verità quotidiana. Non contraddico, ma la dura verità quotidiana è fatta anche di quelle sensazioni che ci guidano in mille circostanze. Se penso a un domani migliore, non esiterò a comperare un paio di scarpe. Se penso che domani potrò avere un lavoro nuovo e migliore, non rifiuterò di riprendere i libri in mano e rifarmi una professionalità. Se penso che potrò guadagnare di più, proverò a investire, magari anche in posti impensabili. Ma se non so, se le dichiarazioni quotidiane sono al limite del contraddittorio, se tanti, troppi, decreti dicono tutto e il suo contrario, allora mi rifugerò nel Reddito di cittadinanza: pochi, maledetti e subito e per il domani vedremo.
La vera colpa, diceva il mio ospite, di chi ha conquistato l’Italia a colpi di Vaffa è stata quella di spiegarci che tutto è marcio, che niente funzionava e che tutti gli altri sono al minimo dei furboni se non proprio dei delinquenti incalliti. Il nero della sfiducia genera disperazione, e parafrasiamo quel Goya che di ‘sfiga’ se ne intendeva.
Ecco, mentre ascoltavamo il nostro valdostano e ci veniva in mente quel che si può fare, siamo riandati con la memoria a quella bella iniziativa della CdO di Como che per sostenere i suoi iscritti in piena crisi di pandemia gli ha ammannito un corso su Dante. Sì, su Dante Alighieri, sull’Inferno, sul Purgatorio. Davvero una bella roba, chissà quanto utile si chiederanno ironizzando per quel che gli riesce quei saggi bocconiani che s’annidano in ogni dove. Eppure la fiducia non nasce da incomprensibili arzigogolii di premi Nobel economisti che ieri dicevano una cosa e oggi ne sostengono il contrario, spiegandoci che siamo noi poveri tapini che non avevamo capito. La fiducia è una cosa seria, troppo seria per lasciarla agli economisti e della quale invece i poeti sanno tutto. Perché guardano al cuore dell’uomo non al proprio portafogli di domani mattina (avete mai visto un poeta ricco voi?).
Pensavamo così a quei versi dell’Inferno in cui il Sommo Poeta presenta l’usuraio Rinaldo Scrovegni. Sì, quello della famiglia che ci ha lasciato la splendida cappella patavina. Ma Dante lo mette giù, vicino a Gerione con la faccia d’uom giusto e d’un serpente tutto l’altro fusto. Rinaldo, il nobile benefattore delle arti, ha i tratti della doppiezza, del tradimento della fiducia, della frode: ma non della frode perché ha sottratto denaro ai suoi concittadini per farselo ridare a interessi esagerati, ma perché ha peccato contro quella fides che reggeva (correggo: che regge) il sistema delle relazioni sociali. Il credito si puntella sulla fiducia: la radice indoeuropea della parola è la stessa del termine cuore. Avere fiducia nell’altro significa inserirlo in un circuito relazionale, togliergli la fiducia, non dandogli credito o sottraendogli la speranza per il domani equivale a ucciderlo, moralmente parlando. La fiducia è un fondamento del bene comune, distruggerla, diceva Dante ma con lui concordava anche il nostro albergatore valdotain che forse non ne ha mai letto più di qualche scolastico verso, significa andare (meglio: peccare) contro l’uomo e contro Dio.
Così raccogliendo l’ultimo goccio di genepì dal fondo del bicchiere, rimuginavamo su quanta strada ci rimanga da fare per ridare al popolo italiano un po’ di quella fiducia che gli è stata sottratta a forza di menzogne, mezze verità e martellanti campagne negative; e a quale girone Dante avrebbe scelto per coloro che da tanto, troppo, tempo si dannano l’anima per farci vedere solo il nero della vita. Se fosse per noi, gli riserveremmo una fossetta laggiù nella Giudecca accanto a Giuda Iscariota, Bruto e Cassio. Ma dato che la nostra fantasia impallidisce di fronte a quella del poeta fiorentino possiamo stare certi, noi, voi e il nostro albergatore, che la pena sarebbe stata ben più sottile e alquanto più adeguata. Oltre che meritata!