Il problema dell’alto astensionismo alle elezioni in Lombardia e nel Lazio, con il 41,61% di votanti nel primo caso ed il 37,2% nel secondo, è suonato come un preoccupante, ma non inatteso, segnale d’allarme. Un certo livello di astensionismo si era infatti segnalato anche nelle ultime elezioni politiche, dove la partecipazione del 63,91% degli aventi diritto aveva costituito già un ridimensionamento rispetto a quelle del 2018, occasione nella quale era stata registrata una percentuale di votanti pari al 72,94% del totale.



Da più parti un tale fenomeno è stato ridotto ad una manifestazione dell’antipolitica, ad una progressiva distanza del Paese legale dal Paese reale. In realtà nell’abbandono dell’esercizio del diritto di voto incombono dinamiche ben differenti da quelle di un rifiuto della politica. Al contrario, si tratta di una vera e propria “intenzione di voto” manifestata attraverso una strategia di uscita.



Venuta meno da molti anni la spinta ideologica e, accanto a questa, l’idea di un confronto tra partiti alla luce del quale si agitavano speranze e passioni, principi da difendere e progetti da realizzare, la partecipazione elettorale sembra attivarsi oramai sotto pressione di due motori radicalmente diversi.

Il primo, propriamente reattivo, è direttamente conseguente alla percezione di precarietà crescenti e di incertezze insostenibili. Il voto è qui la reazione, quasi sempre di protesta, a indirizzi programmatici che si percepiscono come pericolosi. Negli ultimi dieci anni è in quest’area che si sono registrati i movimenti più evidenti: dalle reazioni all’immigrazione clandestina, al timore della dissoluzione della rete di assistenze dirette e indirette, dalla protesta contro la progressiva autoreferenzialità dei partiti alla percezione di crescente insicurezza sul territorio. Le ondate di consenso che hanno privilegiato tra il 2013 e il 2019 il Movimento 5 Stelle prima e la Lega poi sono riconducibili proprio a questo tipo di dinamiche.



Il secondo, più analitico e funzionale, è invece collegato alla credibilità politica dei candidati ed a quella dei progetti delle loro aree di riferimento. La personalizzazione delle candidature e i conseguenti attacchi ai singoli leader consentono di cogliere l’ampiezza di questa seconda dinamica. Anche in quest’area si sono tuttavia registrati consistenti mutamenti.

Attualmente i problemi che scuotono l’Italia sono più il riflesso di dinamiche sovranazionali che non l’esito di blocchi corporativi o anche politico-culturali interni al nostro Paese. In tal senso l’Italia finisce per essere, di fatto ed almeno in molti casi, il terminale di processi economici e scontri geo-politici che si svolgono ben al di fuori dei confini nazionali. La necessità dell’ultima manovra finanziaria ad esempio, di trovarsi costretta a fronteggiare una fiammata dei costi dell’energia ed a porre un brusco rinvio ai pur altrettanto indispensabili progetti che si affollano nell’agenda di governo (dalla riduzione del costo del lavoro alla riforma delle pensioni, dalla riduzione della burocrazia alla riforma della giustizia) ne costituisce una chiara prova. Di fatto, anche i propositi di riforma maggiormente condivisi e decisamente affermati, una volta incappati nelle dinamiche che si sviluppano al di là dei confini nazionali, si vedono indotti a pesanti modifiche dell’agenda interna, costringendosi a decisi rinvii.

Un tale rovesciarsi delle priorità non è stato universalmente riconosciuto. Sinistra e destra – se questi due termini possono avere ancora un qualche significato – hanno riconosciuto in modi differenti una tale invadenza delle dinamiche internazionali sull’agenda del Paese.

Per la prima si è preferito porre l’accento su altre priorità, dove il tema dei nuovi diritti da un lato e quelli della lotta alla mafia e del 41 bis, nella quale la sinistra è incappata dopo l’improvvisa irruzione degli anarchici con il caso Cospito, sono stati posti in forte evidenza.

Per la seconda si è prodotto decisamente il contrario ed il presidente del Consiglio si è distinto per trascorrere i tre quarti del proprio tempo in incontri internazionali e nella predisposizione delle premesse per nuovi accordi, mentre solo un quarto lo ha riservato a Palazzo Chigi.

Di fatto mentre la destra si è riconosciuta in questa dinamica di esposizione internazionale, la sinistra si è trovata in difficoltà ad accettarla e per molti elettori di quest’area, in evidente imbarazzo nei confronti di questa strategia incentrata sui diritti, la scelta di restare a casa è apparsa tutto piuttosto che una forma di antipolitica, tanto più che si profilava una vittoria della destra già scontata, anche se non di queste dimensioni.

L’esercizio del diritto/dovere di voto resta uno dei principali esercizi della democrazia, ma il diritto all’astensione non è affatto il segnale dell’antipolitica, bensì costituisce un avvertimento alla propria area di appartenenza, per segnalare una deriva che non tollera e rispetto alla quale non vede altri canali per esprimersi. La strada che portava al seggio dove si sono scelti i nuovi candidati regionali a molti non è mai apparsa così lontana, a dispetto del ruolo vitale che gli enti locali di fatto svolgono. Molti, di fatto, hanno deciso di non percorrerla. Dietro tuttavia il restare a casa, non c’è affatto solo il banale rifiuto della politica, bensì una decisa forma di espressione e di silenziosa presa di parola attraverso l’unica strategia possibile per mandare un messaggio alla propria area politica.

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