La notte di Vienna si tinge di sangue. Sono le 20 quando un commando, forse di tre uomini, prende d’assalto il distretto 1, attorno alla Sinagoga. Non si sa se l’edificio di culto fosse tra gli obiettivi dell’attacco e queste ore sono destinate a chiarire la dinamica degli eventi. L’esercito austriaco è intervenuto con prontezza e diverse fonti riportano un bilancio provvisorio di sette morti e una quindicina di feriti. Mentre scriviamo l’azione terroristica è ancora in corso e pare essere sincronizzata e disseminata in sei punti della città: un atto di guerra di cui è difficile dare puntuale lettura in questo momento, ma ciò che già emerge è il quadro di un’Europa di nuovo sotto assedio da parte del fondamentalismo islamico, proprio mentre l’intero continente è in trincea a causa della pandemia.



In questi due decenni di lotta al terrorismo il fronte della guerra si è progressivamente spostato prima dagli Stati Uniti alle potenze promotrici del conflitto in Iraq e poi – negli anni del Califfato – alle nazioni che hanno cercato di combattere il fondamentalismo della fede col fondamentalismo della ragione, costruendo una società in cui la religione è stata espulsa dalla vita pubblica e promuovendo stili di vita non inclusivi e perfino sprezzanti delle sensibilità in campo. Benedetto XVI ebbe a dire che lo scontro vero, in Occidente, sarebbe avvenuto tra due opposti estremismi: quello generante il relativismo e quello derivante da una concezione fideistica dell’esistenza. Per un decennio la grande alternativa è stata tra una ragione che non ammetteva la fede e una fede che non sentiva ragioni.



L’attacco di Vienna apre però una terza fase della vicenda, ad indicare come tutto in questo momento sia in movimento. Il califfato non c’è più, la politica americana si è fatta portatrice di un’azione intimidatrice verso l’Iran e Israele ha completamente abbracciato la nuova strategia statunitense. Nel frattempo al Califfo si è sostituito il Sultano e il potere di Erdogan sta giocando un ruolo fondamentale nella partita libica e in quella di tutta l’area mediorientale fino all’Armenia e all’Azerbaijan. Forte di una convergenza di interessi con lo Zar di Mosca e l’Imperatore della città proibita, il governo turco ha sfruttato la politica neo-isolazionista dell’amministrazione repubblicana, il travaglio della Brexit e la debolezza di una società piegata dalla pandemia.



La propaganda ottomana ha riacceso i focolai mai sopiti dei “lupi solitari” e delle cellule dormienti dell’islam radicale, soffiando sul fuoco di un’emergenza sociale che amplifica le differenze e colpisce soprattutto la seconda generazione di immigrati della Francia, del Belgio e del centro Europa. Non solo i fatti di Vienna sembrano una terribile escalation che porta il conflitto verso est, coinvolgendo i paesi sovranisti e alimentando – forse con malizia – le politiche populiste, ma svelano pure ulteriormente la fragilità di un’Unione che non ha una politica estera e una difesa davvero comune.

In questo scenario da “terza guerra mondiale a pezzi” gli uomini di buona volontà possono ancora guardare verso Roma, al Pontefice che guida l’offensiva del dialogo e della pace, nel tentativo costante di ridisegnare il perimetro di una nuova convivenza civile fra le fedi e le culture. Nella notte di Vienna non è il presidente Usa che può indicare la via, prigioniero di una complicata rielezione, ma non sono neppure gli altri presidenti, i re o le regine del continente che possono fare la differenza. Nella confusione di Zar, Sultani e Imperatori, solo la mite fermezza del Papa si presenta oggi come l’unica vera alternativa ad una guerra aperta e permanente. La sua guida è, mai come ora, l’ultima vera possibilità di pace per questo stanco mondo in questo stanco secolo. A fame, a peste, a bello, libera nos Domine!