L’operazione ucraina nella regione russa di Kursk si sta consolidando, perdendo definitivamente le caratteristiche di una semplice incursione, sia pure di successo e in profondità. Particolarmente importante è la conquista di Sudzha, l’ultima stazione in territorio russo del gasdotto della Gazprom che, attraverso l’Ucraina, porta il gas russo in Slovacchia. Da qui il gas arriva in Repubblica Ceca, Ungheria, Austria e Italia. Anche dopo l’invasione russa dell’Ucraina, Mosca ha continuato a versare a Kyiv un sostanzioso pedaggio, ma il contratto scade alla fine di quest’anno e l’Ucraina ha dichiarato di non volerlo rinnovare.



La presa di Sudzha dà quindi a Kyiv un’ulteriore arma di trattativa accanto a quella, ventilata da diversi commentatori, di uno scambio tra territori occupati. Sempre che gli ucraini riescano a mantenere il controllo delle zone occupate. Nella regione vi è anche una centrale nucleare e, secondo Mosca, gli ucraini si preparerebbero ad attaccarla, una sorta di parallelo con i russi e Zaporizhzhia. Potrebbe essere un altro passo verso l’orlo del burrone.



Da un punto di vista strettamente militare, l’operazione non sembra destinata a cambiare le sorti del conflitto, pur mettendo momentaneamente in difficoltà Mosca. Lo stesso Zelensky ha definito l’azione “tattica”, non diretta ad occupare stabilmente territorio ma a costringere Putin a trattare, con una posizione dell’Ucraina più forte al tavolo della trattativa. Purtroppo, raggiungere una pace effettiva sembra tuttora quasi impossibile, dato che entrambe le parti non vogliono rinunciare a Donbass e Crimea.

L’impatto più considerevole dell’operazione è sul lato politico, in quanto viene evidenziata una inaspettata impreparazione da parte russa che mette in seria difficoltà l’apparato militare e i vertici del Cremlino. Risulta infatti ora chiaro ai cittadini russi che il loro Paese è in guerra, contrariamente alla posizione ufficiale del Cremlino per la quale quella in Ucraina era una “operazione speciale” antiterrorista. Probabilmente già molti russi si erano resi conto della reale situazione, se non altro per le gravi perdite subite dall’esercito, ma l’operazione a Kursk pone in rilievo per la prima volta come anche la Russia possa essere costretta a difendersi sul suo proprio territorio.



Tutto ciò è senz’altro un’umiliazione per Putin, ma gli dà l’occasione per chiamare a raccolta i suoi compatrioti in difesa della “Santa Russia” aggredita: la storia della Russia fa pensare che questa chiamata sarebbe ampiamente accolta. C’è però chi ipotizza una diversa reazione del popolo russo, soprattutto se si dovesse arrivare a una mobilitazione generale, anche se attualmente sembrerebbe difficile un cambiamento di regime. Peraltro sempre possibile, se aiutato dall’esterno, per esempio da una Washington decisa a continuare con la sua fallimentare politica del regime changing. L’esito, molto probabilmente, non sarebbe comunque un progresso verso una democrazia di tipo occidentale, con il rischio di un regime ancora più totalitario o di una pericolosissima implosione della Federazione.

La guerra di per sé è insensata, ma quella in Ucraina lo è particolarmente, in quanto nessuna delle parti coinvolte, Washington, Kyiv, Mosca, ha fatto il minimo sforzo per almeno cercare di evitarla. Durante questi dieci anni tutti hanno deciso di fare “la faccia feroce” verso l’avversario e ora la situazione sembra essere giunta a un punto di non ritorno.

Ogni soluzione realistica richiede rinunce che nessuna delle parti sembra disposta a concedere. Eppure, come scrive don Canetta, “partendo da un dolore comune, quello del proprio popolo, si potrebbe trovare un buon punto di partenza. Il dolore di una madre di Kharkiv non è molto differente da quello di una di San Pietroburgo, e neanche da quello di una madre di Grozny (capitale della Cecenia) che si sta ancora domandando perché suo figlio doveva andare a combattere contro gli ucraini, se fino a qualche anno fa passavano insieme le vacanze a Soči”.

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