Alla fine, l’attacco all’Iran è arrivato. Ma quello di Israele non è stato molto di più di un’azione dimostrativa, che ha colpito la zona di Isfahan, dove ci sono i siti di arricchimento dell’uranio, ma senza affondare il colpo. Un’azione piena di riferimenti simbolici: vicino ai siti nucleari, nel giorno del compleanno di Khamenei e con mini-droni pilotati dall’interno del Paese attaccato. Come dire: “Attenti, possiamo farvi male su più fronti”.
Il problema vero, osserva Renzo Guolo, ordinario di sociologia della religione all’Università di Padova, esperto di islam e fondamentalismi, è capire se questo blitz fa parte di un accordo con gli USA che permetterebbe all’IDF di attaccare Rafah. La destra di governo, per voce del ministro Ben Gvir, ha definito “moscio” l’attacco all’Iran. Probabilmente non potrebbe accettare un’operazione sotto tono anche a Rafah per sgominare gli ultimi quattro battaglioni di Hamas. Ma lì ci sono ancora un milione e mezzo di sfollati.
Professore, come possiamo spiegare questo attacco israeliano a trazione ridotta?
Le pressioni americane sono state molto forti e anche quelle dei Paesi arabi. Questi ultimi la settimana scorsa hanno collaborato, seppure in maniera diversa, all’operazione di sbarramento contro i droni iraniani, ma non possono certo favorire un’escalation. L’alleanza con i sunniti di cui si è parlato in occasione dell’attacco dell’Iran è tale in relazione a quella circostanza, ma nessuno in Giordania e Arabia Saudita può sbilanciarsi più di tanto. I Paesi arabi sunniti non sono pro Iran ma non possono, alla luce della questione palestinese, esporsi di più.
L’attacco in sé, vicino ai siti nucleari, più che un’azione è stato un avvertimento su quello che Israele avrebbe potuto fare?
Ma certo. Anche se gli iraniani sapevano già di essere “bucabili”, attaccabili fino a lì. Israele comunque dispone di mezzi tali che, se avesse voluto attaccare i reattori oppure entrare in profondità, non avrebbe faticato a ripetere un’operazione tipo quella USA-Iraq messa a segno nel 1981. Sebbene anche l’Iran disponga di una difesa aerea abbastanza buona, c’è ancora una disparità in termini di armamenti che consentirebbe a Israele di infliggere grossi danni.
E ora cosa succede?
Adesso bisogna vedere se veramente c’è stato un via libera implicito degli USA agli israeliani per l’operazione di Rafah, se Israele ora passa all’incasso dicendo: “Siamo stati bravi, moderati, con l’Iran. Ora lasciateci fare a Rafah”.
Ben Gvir, intanto, ha definito l’attacco all’Iran “moscio”. La destra governativa ne voleva uno molto più deciso?
Anche questo è significativo. Ben Gvir e la destra messianica nazional religiosa e kahanista erano per una reazione di assoluta rigidità, sia sul fronte di Gaza che su quello iraniano. Questo significa che il Likud e Netanyahu hanno dovuto tenere conto delle pressioni statunitensi.
Il problema, quindi, diventa cosa farà l’IDF a Rafah e che fine faranno gli sfollati?
Per attaccare Rafah bisogna sfollare la gente, il problema vero è questo. Far ruotare la popolazione fuori dalla città, verso il mare o l’area Nord. Le analisi delle forze di sicurezza israeliane dicono che ci sono ancora quattro battaglioni di Hamas da snidare tunnel per tunnel e casa per casa: combattere lì sarebbe davvero la battaglia finale e non si può fare con un milione di persone che hanno problemi di sussistenza. Insomma è un’operazione che comporta tanti aspetti organizzativi da risolvere non facilissimi.
Bisogna anche vedere se la popolazione non farà problemi a spostarsi.
Appunto. Del resto non ci sono alternative, perché l’Egitto ha detto che non ne vuole sapere di accogliere i profughi. Dobbiamo capire, però, se c’è un nesso tra questa operazione moderata, di facciata, contro l’Iran e Rafah.
Visto che l’attacco all’Iran è stato “moscio” per tenere buona la destra di governo magari a Rafah si interverrà in modo molto più pesante?
Il problema è che adesso a Rafah gli israeliani potrebbero usare la clava: hanno forti pressioni dall’estrema destra, componente decisiva per il governo. Se i due ministri di questa area se ne andassero, l’esecutivo cadrebbe portando il Paese alle elezioni anticipate.
Dopo questo attacco in tono minore l’Iran cosa farà? Che ruolo potrà avere adesso nel conflitto? Siamo in una situazione che può cambiare anche gli equilibri interni al regime?
Bisogna capire se vogliono mettere fine a un duello in cui una battaglia ne scatena un’altra oppure se, considerata pari e patta questa vicenda, si torna alla guerra dei proxy. L’incognita è la mossa che Israele farà nei confronti di Hezbollah. Tel Aviv è entrata in questa guerra con l’obiettivo strategico di cancellare i nemici ai confini, cioè Hamas ed Hezbollah. L’Iran negli ultimi anni si sta comportando secondo una logica di realismo politico: pensa a sopravvivere, perché con la crisi interna che ha non sarà semplicissimo mantenere la barra a dritta, per questo sa che un conflitto con Israele potrebbe significare un tracollo del regime. La popolazione in larga parte non si batterà per salvarlo.
Può cambiare la situazione politica?
L’altro nodo interno è la relazione tra Khamenei, l’ultimo esponente della prima generazione rivoluzionaria, quella che faceva capo all’ayatollah Khomeini nel 1979, e i pasdaran. Le Guardie della rivoluzione sono diventate l’architrave del sistema, una forza alla quale sono stati delegati non soltanto i compiti di difesa interna, ma anche l’espansione geopolitica del mondo sciita. Dopo aver acquisito una certa autonomia rispetto al potere, potrebbero essere tentate, di fronte alla crisi dei chierici, di assumere direttamente la gestione della Repubblica islamica. I militari potrebbero andare al potere.
Intanto Hamas, come da dichiarazioni di Ismail Haniyeh, sarebbe disposta a sciogliere il suo braccio armato in caso di nascita dello Stato palestinese. Israele la considererebbe una vittoria o sarebbe ancora troppo poco?
Sarebbe un risultato importante, ma bisogna capire in quale cornice si colloca questa proposta. Rimane il problema delle misure di controllo: occorrono garanzie internazionali. La smilitarizzazione implica un passo indietro dell’alleanza di Hamas con l’Iran, un controllo ferreo da parte di autorità che non hanno niente a che vedere con l’organizzazione palestinese, l’ingresso di Hamas nell’OLP, di cui si è avuto sentore dopo l’incontro delle fazioni palestinesi a Mosca qualche settimana fa. Una prospettiva che deve trovare una sede politica in cui le parti si riuniscono e definiscono il contenuto dell’accordo.
Anche solo mettere tutti intorno a un tavolo al momento sarebbe un’iniziativa difficile da realizzare.
Sì. E comunque il problema successivo sarebbe l’individuazione dei territori dello Stato palestinese. Evidentemente Hamas porrà il problema della colonizzazione della Cisgiordania: torna il tema dell’atteggiamento che alcune forze politiche israeliane avranno su questo argomento.
(Paolo Rossetti)
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