È l’1:12 del mattino in Italia quando le esplosioni a Teheran e Karaj sanciscono l’inizio della rappresaglia di Israele contro l’Iran. La reazione israeliana era attesa e ha suscitato un’ampia gamma di speculazioni, fin dal lancio dei missili balistici su Israele da parte dell’Iran il 1° ottobre scorso. Cinque giorni la fuga di notizie sui piani israeliani per l’attacco all’Iran fatti trapelare da un informatore dell’intelligence Usa sembrava pregiudicare l’operazione. A quanto pare, invece, ha avuto ragione chi aveva ipotizzato che l’attacco di Israele dovesse avvenire prima delle elezioni americane del 5 novembre. E così è stato.
Secondo l’IDF sono stati colpiti obiettivi militari. Alle 2:32 il Mossad ha annunciato l’inizio di una seconda ondata di attacchi. La prima ha colpito una centrale elettrica, hanno annunciato fonti iraniane. L’intensità dell’operazione israeliana è decisiva per capire i possibili scenari. Ne abbiamo parlato con Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente, mentre l’attacco è in corso.
Che rischi comporta l’attacco israeliano? Dall’Iran trapela che ci sarebbero mille missili pronti per la risposta di Israele.
Se l’attacco in corso sarà contenuto, vuol dire che Israele non sta sottovalutando l’Iran, a cui vengono attribuite capacità belliche che non immaginiamo. Se invece sarà pesante, ma non possiamo dirlo adesso, vorrà dire che ha altre informazioni sulla reale minaccia che può costituire l’Iran. Attualmente, comunque, si tratta di una minaccia inferiore a quella di un Iran con l’arma atomica: meglio affrontare mille missili adesso, fino a che non hanno una testata atomica.
Ieri in un attacco al campo profughi di Jabalya, nel nord di Gaza, sarebbero stati presi di mira complessi residenziali: 150 tra morti e feriti, mentre altre 38 persone sono state uccise in un blitz a Khan Younis, nel sud della Striscia. È la conferma che l’intenzione dell’IDF è di allontanare i palestinesi da lì?
Netanyahu è stato molto chiaro anche dopo l’uccisione di Sinwar, quando ha sostenuto che la guerra era all’inizio della fine. Poteva capitalizzare questa vittoria. Ma non può essere così: l’obiettivo principale, almeno così era stato annunciato, era riportare a casa gli ostaggi, e di questi non c’è neanche l’ombra.
Sul tema degli ostaggi, in questo momento stanno riprendendo le trattative a Doha: è l’ennesima recita o stavolta qualcosa potrebbe cambiare?
A leggere la cronaca dei negoziati in questi mesi, sembra che sia stato Netanyahu a ostacolarne il rilascio. Di questo lo accusano i familiari degli ostaggi: ogni volta che si era a un passo dall’intesa, rimetteva tutto in discussione. È stato così anche con l’uccisione di Haniyeh, che era capo negoziatore di Hamas nelle trattative. La questione doveva essere risolta subito; dopo i bombardamenti a tappeto non è più una priorità. Hamas, poi, vorrà il rilascio di un numero consistente di prigionieri, cosa che in passato aveva portato alla liberazione dello stesso Sinwar. Netanyahu non vuole che succeda qualcosa di simile. Non credo che gli ostaggi siano una priorità, ammesso che ne siano rimasti.
Secondo il Jerusalem Post, un gruppo di ebrei (poi allontanati) è entrato nella Striscia al grido di “Gaza deve essere tolta ai gazawi”. La strategia adottata in Cisgiordania, con l’occupazione dei territori da parte dei coloni, verrà adottata anche qui?
La verità è che i coloni, i cui referenti politici nel governo Netanyahu hanno una visione molto estremista, vorrebbero Gaza e non si fermerebbero lì, ma farebbero lo stesso con il Libano e la Giordania. Sono i sogni di una minoranza attestata su posizioni molto radicali, ma se guardiamo le cose da un punto di vista pratico, la sicurezza degli insediamenti a ridosso del confine con Gaza o il Libano non può essere garantita che con un’occupazione di tipo militare. E questa, seguendo la logica israeliana, è giustificabile quando ci sono coloni da difendere. Se ci sono degli insediamenti, hanno bisogno di protezione e di conseguenza è giustificata la presenza dell’esercito, dentro o a ridosso del confine.
Una delle accuse mosse alla difesa israeliana dopo il 7 ottobre, però, riguardava proprio il cattivo dislocamento delle forze, troppo concentrate sulla difesa dei coloni e non abbastanza per fare fronte ad altri pericoli. Se si ripete lo stesso schema a Gaza, Israele non rischia ancora di più per la sua sicurezza?
La sicurezza Israele non l’avrà mai; riuscirà ad avere il controllo di questi territori, che in passato ha già avuto: così è stato per Gaza e per il sud del Libano. Ma da lì a ottenere una sicurezza ce ne passa, mi fermerei un attimo prima di dirlo. Credo che gli israeliani non saranno mai sicuri se non capiranno prima cosa fare dei palestinesi, prima di vedere, cioè, se questi ultimi avranno uno Stato e se chi lo gestirà vorrà vivere in pace con Israele.
La Knesset ha ascoltato la testimonianza di soldati colpiti da stress post-traumatico. Sarebbero almeno 1.600, alcuni dei quali si sarebbero suicidati. Oltre 130 riservisti, in una lettera a Netanyahu, avrebbero detto basta alla guerra. Qualcosa si sta incrinando sul fronte israeliano?
Dal 7 ottobre c’è stata un’estremizzazione dell’opinione pubblica israeliana. L’attacco di Hamas ha compattato una società divisa, che si è unita per affrontare una minaccia esterna. Davanti al rischio di un conflitto allargato e a una crescente estremizzazione religiosa del conflitto, con qualcuno che manifesta la speranza che la guerra acceleri il ritorno del Messia, è difficile pensare che Israele si fermi. È da un anno che nessun governo o organismo internazionale riesce o vuole fermare gli israeliani.
Nella Conferenza di Parigi sul futuro del Libano sono stati raccolti soldi anche per rafforzare l’esercito libanese. Se le forze armate fossero più solide e se fosse finalmente nominato un presidente (che secondo la Costituzione deve essere cristiano), il Paese potrebbe pensare a un rilancio?
La situazione libanese è sempre stata molto complicata; i rapporti tra le comunità che vi abitano non sono mai stati idilliaci. È un Paese in cui c’è una profondissima corruzione, con alcune famiglie che controllano il potere e Hezbollah che è più armato e organizzato dello Stato. Si possono mettere soldi per sostenere l’economia, ma è come buttarli in un buco nero. Difficile che il Libano in poco tempo diventi un partner affidabile per limitare l’operato di Hezbollah.
Agire su esercito e presidente, quindi, non basterà?
I soldi per l’esercito bisogna vedere se andranno alle forze armate o nelle tasche di qualcuno, così come bisogna vedere se il presidente avrà prestigio e potere in una situazione frammentata. Non credo che queste mosse porteranno a qualche novità, ma che il Paese sia destinato a subire altri strascichi della guerra: Israele occuperà il sud del Libano, è l’unico modo per riportare 60mila israeliani residenti al nord nelle loro case, e sta procedendo in quella direzione.
(Paolo Rossetti)
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