Andrea Tombolini non è solo l’assassino che due giorni fa è entrato nel centro commerciale di Milano Fiori ad Assago e ha afferrato alcuni coltelli in vendita in un supermercato per uccidere un uomo e ferirne seriamente altri quattro. Tombolini non è soltanto l’uomo che racconta agli inquirenti di aver percepito tutto il contrasto tra la tristezza che si portava addosso e la felicità degli altri, al punto da desiderare la morte di chiunque stava attorno a sé. E Andrea non è neppure soltanto l’emarginato sociale, l’Hikikomori con trascorsi di alcool che assume sistematicamente ansiolitici per allontanare terrori e paure da una vita costellata di delusioni e sconfitte.
No, Andrea Tombolini – certamente criminale e malato – è anche e soprattutto ciò che ciascuno può diventare ogni volta che si allontana dalla realtà, ogni volta che non ascolta i bisogni che ha dentro di sé per inseguire pensieri o impulsi che letteralmente spostano la persona dal rapporto drammatico con l’esperienza del vivere.
Tutti possono diventare Andrea Tombolini. E’ sufficiente cercare di sottrarsi per gran parte della vita al dolore che ci portiamo dentro, dolore per gli amici che deludono, gli amori che tradiscono, i figli che muoiono, quel male che si perpetra sempre in molte delle azioni che si compiono: più ci si stacca dalla realtà, da ciò che la realtà mette in moto dentro il cuore, più resta rabbia e paura, più si alimenta la violenza. La vera sfida di questo tempo è non perdere il contatto con il presente.
Il contatto, tuttavia, non si può moralizzare. Il contatto con la realtà è neutro, ci fornisce informazioni preziose e percezioni dirimenti, ma non ci dice altro. Serve compagnia, amicizia vera, perché quel contatto diventi sproporzione, domanda, ricerca. Il dolore delle cose o ci porta verso un Altro che sta oltre ciò che possiamo vedere e pensare oppure ci porta alla rabbia, al nulla, alla cieca violenza. Il problema di Tombolini è certamente la mancanza di una cura adeguata verso se stesso, ma è anche l’assenza di una comunità attorno a lui che potesse costantemente restituirlo alla realtà e offrire al travaglio di quell’uomo una prospettiva di senso e di pace.
Abbiamo costruito un mondo talmente ricco di risposte che non sappiamo più stare di fronte alle domande, abbiamo attrezzato una narrazione collettiva così ricca di realizzazioni individuali che non sappiamo più coltivare la grandezza di un supporto reciproco, comune e collettivo. L’orrore di Tombolini, che toglie vita ad un’intera famiglia e porta angoscia in altre quattro case, è nel non aver mai avuto qualcuno accanto che gli insegnasse ad amare e a perdonare quelle parti di sé che invece stigmatizzava ed allontanava. Perché non c’è niente che possiamo davvero mandare via senza essere certi che esso tornerà più forte di prima e più feroce. La vita non si cura escludendo, censurando, giustificando o alterando le cose dell’esistenza. La vita si cura con l’amicizia, con le relazioni, con i volti.
I padri della Chiesa dicevano che l’altro è sempre un farmaco, Platone parlava della necessità di avere un buon dialogo e una buona compagnia, nella Bibbia Dio dice esplicitamente che “non è bene che l’uomo sia solo”. In fondo, la verità su quanto accaduto e sul mistero del cuore di Tombolini, che fa dire ad Enrico Mentana in diretta che “davvero non sappiamo che cosa muova l’animo umano”, è quello che cantava Gaber circa un quarto di secolo fa: “Uomini del mio presente, non mi consola l’abitudine a questa mia forzata solitudine. Io non pretendo il mondo intero, vorrei soltanto un luogo, un posto più sincero dove magari un giorno molto presto io finalmente possa dire: “Questo è il mio posto”, dove rinasca – non so come e quando – il senso di uno sforzo collettivo per ritrovare il mondo”.
E’ questa la sfida che la follia di MilanoFiori porta alla libertà di ciascuno di noi.
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