“Non cadere nella trappola”, hanno ripetuto nei giorni scorsi le diplomazie occidentali rivolgendosi ad Israele, intendendo per trappola gli attacchi “provocatori” portati da Hezbollah in suolo ebraico. Un avviso arrivato dopo che i missili delle milizie filoiraniane del Libano hanno colpito Majdal Shams, il villaggio druso nel Golan siriano occupato da Israele nel 1981, facendo strage di bambini. Ma che vale a maggior ragione dopo che ieri sera una pioggia di decine di razzi lanciati dal “Partito di Dio” ha preso di mira Kiryat Shmona e altre località nel nord dello Stato ebraico, impegnando lo scudo antimissile Iron Dome. Non si conosce ancora l’entità dei danni, ma qualunque sia il bilancio, va ad aggiungersi a quel massacro, che ovviamente Tel Aviv non potrà in alcun modo ignorare ed archiviare tra le migliaia di attacchi che quotidianamente, da anni, arrivano dal sud del Libano, a suon di missili, cannonate, ordigni lanciati da droni e via dicendo.



Più che prevedibile la replica: infatti nella notte l’Aeronautica militare israeliana ha subito risposto, colpendo obiettivi Hezbollah nel Sud del Libano, nell’area di Kfarkela. Sempre i jet israeliani il 30 luglio avevano bombardato la roccaforte di Hezbollah a Beirut, nel quartiere Dàaheh, per colpire Fouad Shukr, il numero due dell’organizzazione guidata da Hassan Nasrallah. Shukr, noto anche come Al-Hajj Mohsen o Mohsen Shukr, era un membro anziano dell’organizzazione, della generazione fondatrice di Hezbollah, un leader militare anziano, per decenni una delle principali figure militari del gruppo.



La regola, in quel quadrante, è il colpo su colpo, attacchi e contrattacchi, vendette e ritorsioni: questo, è chiaro, è il perimetro entro cui si muovono gli attori regionali, una sorta di sanguinoso ping pong che adesso vede sempre più a rischio l’integrità del Libano, Paese dove – come riporta Agensir – l’80% delle persone vive in uno stato di povertà e in una situazione di grande incertezza rispetto all’alimentazione, l’accesso all’acqua potabile e le cure mediche.

Uno Stato incuneato in mezzo a nemici storici: a Beirut le elezioni del 2022 sono andate presto in fumo, Hezbollah, pur perdendo la maggioranza parlamentare, è riuscito comunque a piazzare il presidente del parlamento, l’immarcescibile Nabih Berri, musulmano sciita. Nessuna fumata bianca, invece, sul Presidente della Repubblica (che per legge dev’essere un maronita), e così il primo ministro sunnita Najib Miqati, in carica per gestire i soli affari ordinari, ne ha assunto le funzioni ad interim. Nel frattempo, la svalutazione della lira libanese rispetto al dollaro vedeva nel 2023 89.500 lire per un dollaro, con un’inflazione del 225%. Un Paese nel caos e in povertà: adesso numerose compagnie aeree (Ita compresa) hanno rinunciato ai collegamenti con Beirut, così come molte cancellerie (non solo occidentali) hanno già invitato i connazionali a frettolosi rientri in patria, predisponendo voli e trasporti navali d’emergenza. E anche il ministero della Difesa italiano ha studiato piani precisi a salvaguardia del nostro contingente (circa un migliaio di soldati) inquadrato nei caschi blu Onu della missione Unifil. Si resta tutti col fiato sospeso, insomma, già sapendo che l’aria che tira non è buona e che il futuro prossimo più probabile è quello di un conflitto aperto su scala almeno regionale.



Situazione peggiorata anche dopo l’attacco israeliano che ha voluto eliminare Ismail Haniyeh, leader di Hamas, che dormiva nella periferia di Teheran in un compound ritenuto sicuro dai guardiani della rivoluzione, e che invece nascondeva al suo interno una bomba fatta esplodere da remoto, uccidendo un nemico potente ma anche ridicolizzando l’intelligence iraniana e facendo intuire che quella di Tel Aviv, al contrario, può arrivare ovunque. Ovviamente Teheran ha promesso di rimando vendette terribili (mentre dal sud del Libano non è mai cessata la pioggia di missili sul Golan israeliano, dove quasi tutti gli insediamenti sono stati costretti all’evacuazione), una minaccia acuita anche dopo l’ultima “eliminazione mirata” portata a segno dagli israeliani (la strategia “Ira di Dio”, ossia l’eliminazione di coloro che sono ritenuti responsabili di atti o attacchi anti Stato ebraico, una prassi che perdura almeno dalle esecuzioni messe in atto nei primi anni 70 dopo la strage degli atleti di Tel Aviv alle Olimpiadi di Monaco). Ieri l’IDF ha annunciato l’uccisione di un comandante degli Hezbollah libanesi nella zona di Bazouriyeh, nei pressi di Tiro: si tratta di Ali Nazih Abed Ali, considerato figura “centrale nel Fronte Sud dell’organizzazione terroristica”, accusato di essere coinvolto nella pianificazione e nell’esecuzione di vari attacchi.

A Teheran il consiglio della Jihad (il coordinamento delle operazioni militari del movimento sciita libanese, guidato da Hassan Nasrallah, in stretto contatto con la forza Quds della Guardia rivoluzionaria), e quello della Shura (braccio politico dell’organizzazione), stanno decidendo obiettivi e tempi. Anche se tutti sanno che la consuetudine iraniana di combattere il nemico per procura (con le milizie sparse tra Libano, Yemen, Gaza, Siria, Iraq) non rappresenta un modulo facilmente tramutabile in conflitto aperto, diretto. Così come è ben noto il comun denominatore che da troppi anni incendia tutto il Medio Oriente, e cioè le mire di Teheran per divenire, annientando il nemico sionista, l’unico riferimento per un’area vasta, musulmana e a prevalenza sciita.

A frenare il disegno sono soprattutto il potente alleato di Israele, gli Stati Uniti, e la certezza della supremazia dell’arsenale di Tel Aviv, che non esiterebbe ad utilizzare, in caso di pericolo per l’integrità del suo territorio, ordigni atomici tattici, se non peggio. Il Wall Street Journal ha riportato che gli Stati Uniti “hanno spostato le navi da guerra in posizione per proteggere non solo Israele ma le proprie forze in Medio Oriente, in mezzo alla crescente preoccupazione che l’Iran possa lanciare un attacco diretto contro lo Stato ebraico”.

Se da tutto questo non emerge chiaro il pericolo imminente di una guerra semiglobale, è solo perché non si valuta correttamente il quadro d’insieme. Ad esempio, proprio in questi giorni la fregata missilistica russa Admiral Gorshkov è arrivata al porto di Orano insieme alla petroliera marittima media Akademik Pashin. La visita dei marinai della marina russa durerà diversi giorni, ha dichiarato l’ufficio stampa: una sosta monitorata da vicino dalla fregata Victoria (F82) della Marina spagnola, ad ovest della città algerina. E nella stessa zona è arrivato anche un Boeing P-8A della USN proveniente dalla NAS Sigonella. Il Mediterraneo sta registrando un ingorgo pericoloso, dove una scintilla può scatenare il finimondo.

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