A Gerusalemme, per il gabinetto di guerra, hanno aperto un bunker antinucleare che si trova in periferia. Segno che ormai l’attacco dell’Iran in risposta all’uccisione del capo di Hamas, Ismail Haniyeh, è imminente. Un’azione come quella messa a segno a Teheran, d’altra parte, doveva per forza prevedere una risposta da parte degli iraniani. Una situazione che potrebbe aprire a un’ulteriore pericolosa escalation in Medio Oriente, ma che almeno per il momento, osserva Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, finisce anche per ricompattare un Paese, Israele, che mostra al suo interno divisioni laceranti, fin dentro il governo Netanyahu. L’attuale esecutivo ha radicalizzato idee che però appartengono alla storia di Israele degli ultimi decenni. Lo stesso Shimon Peres indicava l’Iran come il vero competitor di Tel Aviv nella zona. Ora però sono portate alle estreme conseguenze, in una nazione che, tuttavia, deve pensare anche alla sua unità interna, messa a dura prova in particolare da alcune prese di posizione dell’estrema destra.



Israele ormai è deciso alla guerra con l’Iran?

Quello di Israele a Teheran è stato un atto deliberato per scatenare una reazione, una cosa che Netanyahu provava a fare da molti anni. L’idea della guerra contro l’Iran, d’altra parte, ha avuto molto spazio nella politica israeliana degli ultimi decenni, ed è diventata sempre più presente in ragione del programma nucleare iraniano. Non era estranea neppure a Shimon Peres. L’Iran è il grande competitor non solo perché (vedi Ahmadinejad) è arrivato a dire che bisogna distruggere Israele, senza chiamarlo neanche per nome ma additandolo come l’entità sionista, ma anche perché Israele è una potenza nucleare e non vuole rivali da questo punto di vista nella regione. L’Iran ha pure una tradizione plurimillenaria: è un competitor anche nella storia dell’area.



Quello iraniano non sarà un attacco coreografico come è avvenuto in aprile, quando l’Iran aveva avvisato tutti delle sue intenzioni?

No. Lo dice anche una visita lampo del ministro degli Esteri giordano a Teheran, preoccupato che i missili iraniani passino sullo spazio aereo giordano. La situazione adesso si fa molto complicata. L’Iran attende, può attaccare tra un giorno o due settimane, lo farà secondo i suoi tempi.

Il governo israeliano parla addirittura di un attacco preventivo nei confronti degli iraniani per anticiparli: sono pronti alla guerra aperta?

La guerra aperta verso Libano e Iran, verso la mezzaluna composta dall’Asse della resistenza che va dalla Siria all’Iraq, fino allo Yemen, fa dimenticare aspetti rilevanti della situazione: a Gaza il conflitto continua, lì l’escalation c’è da dieci mesi. Gli aerei hanno appena bombardato due scuole, diventate rifugio della popolazione che si sposta da mesi. Con Israele che dice di aver colpito una sala di controllo. La realtà è che lì ci sono due milioni di sfollati. L’80% delle 35 vittime dell’ultimo attacco sono bambini: un elemento che viene marginalizzato perché si attende l’attacco dell’Iran.



Quali altri aspetti stanno passando in secondo piano?

Un altro aspetto dimenticato è Sde Teiman, il campo di detenzione militare in cui la tortura è conclamata, tanto che la polizia militare era andata ad arrestare alcuni soldati accusati di torture indicibili su un palestinese: in questi mesi nelle strutture carcerarie ne sono morti almeno 54. Questi militari a furor di popolo non sono andati in galera, a causa delle manifestazioni dell’estrema destra dentro il campo di detenzione e dentro i tribunali militari. Si tratta di un problema serio per la tenuta democratica di Israele: c’è una presenza attiva dell’estrema destra che rischia di far precipitare Israele nella guerra civile o che lascia aperta la strada a un golpe. Una guerra nei confronti dell’Iran ricompatta un Paese che ha delle fragilità evidenti a tutti.

Secondo Times of Israel il ministro Smotrich ha detto che “potrebbe essere giustificato far morire di fame due milioni di persone a Gaza, ma il mondo non ce lo permetterà”.

Non lo ha detto solo lui, e neanche solo l’estrema destra messianica, lo hanno detto anche elementi del Likud. Questa deumanizzazione dei palestinesi sta diventando evidente a tutti, anche fuori da Israele. C’è un pezzo di informazione israeliana che Netanyahu ha coltivato, estesa soprattutto in televisione, che cavalca la rottura delle norme internazionali, per cui tutto è concesso. Tutto questo non è cominciato adesso: secondo la legge dello Stato nazione del 2018, nel territorio compreso nei confini del 1967 e nelle colonie della Cisgiordania, ci sono cittadini considerati di serie A, gli israeliani ebrei. Se si identifica lo Stato di Israele come Stato ebraico, vuol dire che siamo in una “etnodemocrazia”: un quinto della popolazione non è ebreo e viene considerato come se avesse un altro status. I palestinesi sotto occupazione sono sottoposti a una legislazione militare: vuol dire che se tiri una pietra hai dieci anni di galera, se ti arrestano hai la detenzione amministrativa che può continuare a lungo.

Tornando alla crisi con l’Iran, gli USA si decideranno mai a togliere le armi a Israele, unico modo forse per cambiare i piani di Netanyahu?

Credo di no. C’è un problema serio di relazione fra USA e Israele a livello di establishment, non di elettorato o di opinione pubblica, ma nella struttura profonda dello Stato: togliere le armi a Israele non è contemplato, tanto è vero che sembra stiano approvando l’invio delle famigerate bombe da 2mila libbre, da 900 chili, che probabilmente non serviranno più solo per Gaza. Il cuore del problema è che qui nessuno pensa di non mandare armi a Israele, neanche la Harris.

Dopo la morte di Haniyeh, Hamas deve trovare un nuovo capo. Sarà Khaled Meshaal?

Ci sono alcuni nomi in pole position, dipende da quello che decidono i quadri alti del partito, il Consiglio della Shura: una decisione che non tocca solo ai leader di Doha, perché bisogna sentire tutte le circoscrizioni, Cisgiordania, Gaza e estero. Ci sono alcune questioni aperte. Se si vuole assicurare la continuità bisogna ricordare che Haniyeh veniva da Gaza e l’aveva lasciata per coltivare quelle relazioni internazionali che si possono avere solo all’estero. Per questo era andato a Doha. Anche Sinwar è di Gaza, ma c’è un altro leader che proviene da lì, Khalil al-Haya. Se si guarda alla continuità, il successore potrebbe essere Haya; se si vuole dare un’immagine della storia di Hamas, si può scegliere Meshaal, che ha subìto un attentato dagli israeliani nel 1997 e ha una sua rete di relazioni in tutta la regione. Se si teme per la vita del successore si aspetterà.

Quanto pesa questa scelta?

Questo capo sarà di transizione. Il capo dell’ufficio politico di Hamas viene eletto ogni quattro anni, le elezioni ci dovevano essere l’anno prossimo. È possibile che si decida per un anno di transizione, altrimenti c’è bisogno di tempo per consultazioni clandestine che indichino un nome condiviso dalla maggioranza. Quella di Hamas è una leadership collettiva: se ammazzano Haniyeh, non è che dietro di lui non ci sia nessuno.

C’è in discussione pure un cambio di linea?

Bisognerà vedere chi sceglieranno: Meshaal è rifugiato, non può entrare in Palestina e non è così legato all’Iran come piano piano si tendeva a essere negli ultimi anni. All’insediamento del presidente iraniano Pezeshkian c’erano Haniyeh e Haya. Haniyeh però aveva rapporti fraterni con Erdogan ed era stato in Turchia diversi anni. Hamas non è schiacciata sull’Iran, ha una serie di relazioni in tutta la regione.

(Paolo Rossetti)

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