Quattro strutture in Siria e tre in Iraq, tutte legate a milizie filoiraniane, per un totale di 85 obiettivi. Con oltre 30 morti dichiarati dalle milizie. La risposta americana all’uccisione di tre soldati Usa in Giordania in seguito al lancio di un drone nella zona della base siriana di al Tanf è arrivata. E probabilmente non è ancora completata nei suoi obiettivi visto che il presidente Biden ha annunciato che le operazioni militari continueranno.



È l’ennesimo episodio, spiega Giuseppe MorabitoGenerale con al suo attivo diverse missioni all’estero, fondatore dell’Igsda e membro del Collegio dei Direttori della Nato Defense College Foundation, di quel conflitto a bassa intensità che l’Iran sta combattendo contro gli Stati Uniti attraverso i suoi proxies e che ha provocato il contrattacco americano. Un conflitto destinato a continuare fino a che non si risolverà la questione palestinese o fino a un cambio di regime a Teheran. In Iran c’è una opposizione interna al regime degli ayatollah, manifestatasi soprattutto in occasione delle proteste popolari dopo la morte di Masha Amini, arrestata per non aver indossato in modo adeguato il velo, ma fino a questo momento è stata repressa in modo sanguinario. L’opposizione al regime non riesce a trovare un leader, a darsi un’organizzazione tale da assumere governo e controllo del paese.



Anche se non ha raggiunto direttamente il territorio dell’Iran la risposta degli Usa all’uccisione di tre soldati americani è arrivata. E non è finita qui: dobbiamo aspettarci altre azioni militari nell’ambito di questa operazione?

Probabilmente continueranno perché, secondo le dichiarazioni rese, l’obiettivo che si sono prefissati non è stato completato. La logica direbbe che avranno un seguito fino a quando le forze USA non saranno sicure di aver neutralizzato chi ha colpito gli americani. I tre soldati uccisi sono appena tornati in patria alla Dover Air Force Base nel Delaware e gli Stati Uniti vogliono far capire che, quando viene colpito un americano, la loro reazione sarà sempre determinata. Hanno colpito le postazioni dalle quali è arrivato l’attacco che ha portato alla morte dei militari e al ferimento di altre 40 persone.



Gli Usa hanno subito decine di attacchi tra Siria e Iraq dopo il 7 ottobre e le milizie filoiraniane sono molto radicate in quell’area: sarà un’operazione a lungo termine?

L’operazione di controllo della regione  da parte degli americani è in atto già da tempo, un’operazione come quella di ieri viene condotta solo perché c’è stato un attacco diretto alle forze Usa. Non è una campagna vera e propria.

Il New York Times dice che Khamenei, guida suprema dell’Iran, ha detto ai suoi di evitare lo scontro diretto con gli Stati Uniti. E anche dall’altra parte ci si è affrettati a dire che non si vuole una guerra con Teheran. L’allargamento del conflitto in questo senso è scongiurato?

Gli iraniani attaccano per procura utilizzando le organizzazioni terroristiche loro legate che operano sul territorio dei paesi vicini. Non si schierano in prima persona, sanno esattamente qual è la linea rossa che non devono superare. Lasciano ai terroristi da loro armati e addestrati il “lavoro sporco”.

Anche gli Stati Uniti non vogliono l’escalation però intanto sono stati tirati dentro la guerra dagli Houthi nel Mar Rosso e dalle altre milizie filoiraniane qui. Subiscono la strategia avversaria?

Quelle americane sono operazioni di controllo della regione, vogliono confermare la loro presenza stabilizzatrice, se poi ricevono degli attacchi rispondono. Non c’è una guerra dichiarata, come tra Ucraina e Russia, dove due nazioni si confrontano sul terreno, ma un conflitto a bassa intensità in cui gli Usa per mantenere un controllo della regione e la libera circolazione delle navi nel Mar Rosso sono costretti a impegnare la forza perché i terroristi, supportati dalla Guardia rivoluzionaria iraniana, vogliono che lascino l’area.

Qual è il vero obiettivo dell’Iran, perseguito attraverso le sue milizie?

Come appena detto, Teheran vorrebbe che gli americani lasciassero l’area, che non avessero più basi nel territorio che l’Iran vuole porre sotto la sua influenza. Li considera funzionali a Israele, che è il loro nemico giurato. Non può affrontarli direttamente perché sa che significherebbe la distruzione certa di buona parte della loro capacità operativa e del territorio.

Ma gli Usa, a parte il legame con Israele, sono rimasti isolati nell’area?

Nell’area ci sono Paesi che non condividono la loro politica, ma dire che sono contro di loro è un’altra cosa. L’unico Paese che è veramente contro è l’Iran che sta tentando, non riuscendo fino ad oggi, di creare un fronte antioccidentale coeso. In questo quadro la missione navale europea  contro i terroristi Houthi nel Mar Rosso è un segnale importante e sono positivamente impressionato dal manifestato impegno del nostro paese. Difendere il libero traffico commerciale è un segnale chiaro a Iran e suoi “amici”.

Da quattro mesi le milizie filoiraniane attaccano basi Usa e navi nel Mar Rosso, con gli americani che rispondono. C’è un modo per uscirne oppure dovremo continuare ad assistere a questo botta e risposta?

Continueranno così perché non c’è nessun interesse a portare il conflitto a un livello superiore. L’odio contro Israele e l’alleato americano è atavico. Con un cessate il fuoco a Gaza e un accordo anche temporaneo con Tel Aviv questo fenomeno andrebbe forse temporaneamente scemando: non risolverebbe il problema, ma servirebbe a dar spazio alla diplomazia. Poi bisognerà vedere cosa si riuscirà a fare a livello di trattative, se si raggiungerà un’intesa. La questione israeliana resterà nel tempo fino a che non si troverà una soluzione tipo quella dei due stati. Un’altra soluzione per ridurre la conflittualità potrebbe essere quella di un cambio di regime in Iran, ma finora l’opposizione è stata repressa nel sangue: non è sufficientemente organizzata per poter sopravvivere al controllo in atto da parte della dittatura. Ci vorrebbe in Iran un governo che guardasse veramente agli interessi del Paese, che non avesse come obiettivo primario la distruzione dello Stato di Israele.

Il fronte su cui è impegnata Washington si è esteso all’Iraq, il pericolo di un coinvolgimento sempre più intenso spingerà il presidente Biden a fare pressione su Israele per trovare una via d’uscita alla guerra di Gaza?

È uno sforzo che gli americani possono sostenere. Il loro impegno per risolvere il problema di Gaza è già massimo, lo dimostra anche l’ennesima missione nell’area del segretario di Stato Anthony Blinken, che risentirà e cercherà un accordo tra tutti i Paesi della regione. Washington, giustamente, non vuole che passi il principio per cui più gli USA vengono attaccati e più si impegneranno per la conclusione delle ostilità nella Striscia. È una spirale improponibile. Anzi auspico che l’impegno per un cessate il fuoco sia sempre maggiore a prescindere dalle azioni dei terroristi filoiraniani.

(Paolo Rossetti)

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