L’Iran parla di terrorismo di Stato e annuncia vendetta, il segretario di Stato americano Mike Pompeo dichiara che gli Stati Uniti hanno agito per prevenire un attacco. È la tv di Stato irachena ad annunciare, nella tarda serata di giovedì 3 gennaio, che il generale iraniano Qassem Soleimani, numero due del regime di Teheran, è stato colpito da un drone americano mentre lasciava l’aeroporto di Baghdad.



“Non vedo le condizioni per nessuna guerra” commenta Paolo Quercia, docente di studi strategici nell’Università di Perugia e direttore del Cenass. Trump, tuttavia, “ha certamente mirato a produrre un preciso effetto politico a Teheran. Vuole disimpegnare gli Usa dal Medio oriente senza un totale ritiro militare, lasciando così la regione presidiata ma nel caos. E in questo disegno c’è spazio anche per una Turchia disallineata”.



Perché il raid contro il generale Qassem Soleimani? Perché adesso?

Impossibile saperlo. La decisione è una decisione personale del presidente Usa basata su notizie di intelligence, dunque segrete. Ci potrebbe essere il miglior motivo del mondo o nessun valido motivo. Non lo sapremo mai. 

Qual è il contesto nel quale va collocata l’iniziativa Usa? Solo l’assedio in Iraq all’ambasciata americana dietro il quale, pare, ci fosse il generale iraniano?

Sì, c’era l’assalto contro l’ambasciata Usa, pare organizzato da milizie di Teheran operanti in Iraq. Che a sua volta protestavano per l’uccisione di dozzine di miliziani sciiti in un raid americano di qualche giorno fa. A sua volta effettuato in ritorsione per l’assassinio di un contractor statunitense. Insomma, di “a sua volta in sua volta” potremmo tornare indietro agli inizi del conflitto del 2003.



La verità?

La verità è che oggi l’Iraq è il teatro principale della lunga guerra sporca che Usa ed Iran stanno combattendo da decenni. Che Obama si stava accingendo a chiudere e che Trump ha riaperto, portandola su un nuovo terreno. Ma l’Iraq è anche il teatro dove la strategia americana è in maggiore difficoltà, dove gli Usa non riescono ad esercitare contro Teheran la strategia della massima pressione.

Qual è, dal suo punto di vista, l’aspetto più interessante di questa vicenda?

Sul piano dell’analisi, quel che conta è capire perché gli Usa hanno deciso di colpire una figura che, oltre ad essere un leader di primissimo piano del comparto militare iraniano – ossia il capo delle forze speciali per le operazioni militari coperte all’estero – ha un valore politico elevatissimo nel sistema di potere di Teheran.

Insomma una valutazione puramente strategico-militare non basta.

Nonostante Soleimani fosse ritenuto dagli Usa un terrorista, non è chiaramente questo il motivo per cui è stato eliminato. La deliberata decisione di Trump, o di chi per lui, ha certamente mirato a produrre un preciso effetto politico a Teheran. 

Qual è l’obiettivo iraniano?

L’Iran sta tentando di resistere all’offensiva di Trump e alla sua strategia della massima pressione, sopportando le restrizioni delle sanzioni economiche e cercando di sfruttare i passi falsi degli Usa nella regione, in particolare in quei Paesi come Iraq, Siria, Libano, Yemen dove Teheran ha un ruolo diretto negli affari interni. Questo almeno per tutto il 2020, fino alle elezioni presidenziali Usa.

E l’attacco americano ridimensionerà i piani dell’Iran?

Onestamente non credo che vi saranno notevoli cambiamenti nella politica di Teheran in quanto le opzioni strategiche dell’Iran sono limitate. E questo spinge gli Usa ad alzare la posta. Non sappiamo se questo è stato solamente il primo evento di questo tipo del nuovo anno o ne seguiranno altri. 

Quali sono secondo lei gli altri punti da unire per arrivare all’iniziativa di Trump? Gli attacchi alle petroliere dell’estate scorsa? La situazione in Iraq? Il ritiro Usa dalla Siria?

Nel caso delle petroliere Trump aveva fermato le ritorsioni militari contro obiettivi iraniani. Questa volta invece ha apparentemente deciso di esagerare. Al di là dei fatti specifici, credo che il contesto in cui questo evento va inserito sia quello di un disimpegno politico americano dal Medio oriente senza un totale ritiro militare, lasciando così la regione presidiata ma nel caos. La domanda corretta che bisognerebbe porsi in seguito all’uccisione di Soleimani è dunque se Trump intende diminuire l’impegno Usa in Iraq. 

Gli Usa manderanno altri 3.500 soldati in Medio oriente. Con quale obiettivo e quale strategia?

Non credo possiamo parlare di una strategia. Queste sono forze di reazione per impieghi di pronto intervento a protezione di possibili obiettivi, non un rafforzamento della presenza militare. 

L’escalation può innescare una guerra, ha detto il premier iracheno Adel Abdul Mahdi. Ma quale guerra può innescare, che già non sia iniziata?

Un peggioramento della situazione in Iraq, già sull’orlo del caos, certamente sì. Ma onestamente non vedo le condizioni per nessuna guerra. Ho addirittura letto qualcuno paragonare l’uccisione di Soleimani all’omicidio di Franz Ferdinand a Sarajevo nel 1914. Posso sbagliare, ma onestamente mi sembra assurdo. Le guerre si fanno per interesse e per calcolo ed hanno una loro logica, anche se paradossale o ingiusta.

La reazione iraniana?

Ci sarà, ma chi sa quando e dove. E penso che sarà concepita in modo da non portare ad un conflitto. Più che altro bisogna chiedersi quale prossimo colpo gli Usa stanno preparando. In generale penso che dobbiamo più temere il caos che nasce da questi eventi che lo scoppio di guerre tradizionali. 

Il gen. Camporini ha dichiarato che da oggi l’Italia è ancora più esposta. Condivide le sue dichiarazioni?

Onestamente no. È vero che abbiamo militari in Medio oriente e che siamo un paese immerso nel Mediterraneo, ma non vedo proprio il motivo per cui dovremmo essere colpiti dagli iraniani, se non accidentalmente.

Secondo alcuni osservatori l’eliminazione di Suleimani rappresenta l’inizio di una nuova fase della politica Usa in Medio oriente.

Più che una nuova fase mi pare una fase di radicalizzazione di quanto abbiamo visto fino ad oggi. Mancano dei tasselli, ma Trump, se non una strategia, un disegno per il Medio oriente ce l’ha. E in questo disegno c’è spazio anche per una Turchia strategicamente disallineata. 

Cosa deve fare l’Italia, anche alla luce del delicatissimo dossier libico?

Ripensare i fondamentali della politica estera e della strategia di una media potenza in declino, intrappolata in una regione densa di conflitti e pericoli e priva di efficaci e solide alleanze in grado di tutelare i nostri interessi.

Una valutazione severissima, la sua.

Per anni ci siamo riempiti la bocca di retorica, concetti, visioni ed illusioni sul Mediterraneo, sull’Euro-Mediterraneo, sull’Europa e sulla mitica “comunità internazionale”. Oggi però è evidente che la nostra regione geopolitica è in una fase di avanzata destrutturazione; e che gli interessi fondamentali per l’Italia possono essere tutelati solo con un saggio uso strategico della politica estera intesa come proiezione di capacità, anche militari, influenza politica e culturale, forza economica.

Ma chi è capace oggi di questo saggio uso della politica estera?

Questo è il punto. Mancando nella classe politica preparazione, visione e coraggio, viene accuratamente evitata una riflessione necessaria sul ruolo dell’Italia nel mondo ed in particolare nel Mediterraneo. Si continua a riproporre la figura di un’Italia immobile agli enormi cambiamenti storici che ci circondano, un’Italia che pretende di rimanere una penisola sospesa nel tempo, un ponte geopoliticamente impermeabile tra l’Europa e l’Africa. E intanto il mondo va da un’altra parte.

(Federico Ferraù)