Prima che il comodo alibi del Dio buono contro il Dio cattivo, sia esso Allah o Buddha o chi altro, faccia calare il suo ipocrita mantello sugli interessi degli uomini, proprio nei giorni più sacri per i cristiani, meglio mettere in fila qualche fatto. Perché certe tragedie ci sbattono conradianamente in faccia l’Orrore, quindi o si ha il coraggio di guardarlo dritto negli occhi, dandogli un nome, o è meglio tacere. La terza ipotesi, quella di tramutare tutto in propaganda e ideologia, temo che purtroppo diverrà ancora una volta la più diffusa. Lo Sri Lanka è pacificato solo a parole, dopo anni e anni di guerra civile e di attacchi delle Tigri Tamil. È in atto uno scontro spaventoso di potere fra Presidente e Parlamento, quindi che qualcuno possa arrivare all’abominio della strategia della tensione non deve stupire. L’Orrore, in quanto tale, si nutre di questo.
Altrimenti, appare quantomeno strano che uno dei capi della polizia abbia diramato un allerta per un possibile attentato in preparazione solo dieci giorni fa e che, nonostante questo, il Paese non sia stato colpito da un singolo kamikaze, da un’autobomba, da un gesto incontrollabile. È stato bersagliato simultaneamente da otto esplosioni, un lavoro militare. Da professionisti. O da chi sa che può contare su connivenze e silenzi. Diciamo le cose come stanno: senza quinte colonne, un’operazione simile in un Paese pre-allarmato non può accadere. O, almeno, non potrebbe accadere.
E chi aveva messo sul chi va là la polizia? Si parla di un servizio segreto straniero. Come al solito, ovviamente. E in tempi di guerra di intelligence, non stupisce. Viviamo nel mondo del terrore perenne, dei continui allarmi, delle messe in guardia costanti. Alcune vengono prese sul serio, altre no. E nelle pieghe di queste ultime, si insinuano come serpenti gli atti destabilizzanti. Destinati a procurare paura, prima che morti. I quali, da quelle parti, non fanno notizia come da noi. Quante bandiere dello Sri Lanka, in segno di lutto e solidarietà, avete visto postate su Facebook o Twitter ieri? Per Notre Dame abbiamo assistito a uno stillicidio social. Lo Sri Lanka è un Paese in crisi economica, grave. Pesantemente indebitato a livello estero, come spesso accade da quelle parti.
Ecco come Bloomberg descriveva brevemente l’impatto degli attacchi di ieri: “La capacità dello Sri Lanka di attrarre investimenti esteri è destinata a diminuire dopo gli attacchi di domenica, stando a Raffaele Bertoni, capo dei debt-capital markets alla Gulf Investment Corporation di Kuwait City. Gli eventi di questa mattina, insieme alle crescenti tensioni politiche e all’indebolimento dell’attività economica, avranno un impatto a partire dalla rupia. Bertoni vede la rupia indebolirsi fino a 180 per dollaro”. Questo dopo che giovedì la stessa rupia aveva chiuso le contrattazioni a 174,11 sul biglietto verde.
Direte voi, davvero lo Sri Lanka e la sua economia sono così importanti da giustificare un atto di destabilizzazione simile, se davvero dobbiamo guardare oltre l’orticello – seppur seminato a mine – delle dispute politico-religiose meramente interne? Davvero dobbiamo pensare a qualcosa che vada oltre il mero atto terroristico di matrice religiosa? Dunque, uno dei capi della polizia dieci giorni fa aveva avvisato del pericolo. Ieri è accaduto quel che è accaduto, un’ecatombe. Un attacco senza precedenti in un Paese che di attacchi ne ha subiti per anni, per decenni. E, stranamente, quando l’ultima bomba era esplosa da un’ora, già si parlava senza dubbio di matrice religiosa e, addirittura, erano già stati compiuti degli arresti, era stato individuato e sgominato il commando. Strano recupero di efficienza, non vi pare?
Ripeto, non si è trattato di un attacco di quelli che non si possono prevedere, dell’atto del lupo solitario o del kamikaze, dell’assalto armato o dell’esplosione su un treno senza controlli: otto ordigni esplosi pressoché simultaneamente in altrettanti punti del Paese, con epicentro in chiese (nel giorno di Pasqua) e nei tre alberghi principali, notoriamente pieni di turisti occidentali. Uno dei quali addirittura si trova di fronte alla casa del primo ministro. Certo, tutto può essere. Ma una cosa appare palese: la discrepanza di atteggiamento delle forze di sicurezza. Fra prevenzione e reazione, fra prima e dopo. Quasi si trattasse di due corpi distinti, di due eserciti uno contro l’altro. In seno allo stesso Stato. Con nelle vene, lo stesso sangue di quei 200 e passa morti.
Ora, guardate queste due mappe e guardate perché lo Sri Lanka è così importante: è al centro della rotta marittima della “One Belt, One Road Initiative” cinese. È lo snodo dall’Estremo Oriente verso le rotte che porteranno al terminale finale dell’Europa, è il punto di snodo verso il gigante indiano e il Pakistan, lo stesso Paese che sta annullando un contratto dopo l’altro con Pechino, causa – ufficiale – eccessivi costi. È indebitato lo Sri Lanka e, in quanto tale, accetta aiuto da chi lo offre. Da chi costruisce ponti, ferrovie, strade. Presta magari denaro, evitando le forche caudine del Fmi. E in cambio offre logistica e strategicità geografica e geopolitica.
Signori, il gioco qui è molto più grande di quanto si possa pensare. Al mondo ci sono pazzi che, in nome del loro Dio, uccidono e distruggono? Certo. Ma al mondo c’è anche chi utilizza quegli stessi pazzi per finalità che con Dio non hanno nulla a che fare. Tanto più un Dio che non vorrebbe contaminazioni impure, come ci dicono, un Dio iconoclasta dell’altro fino al punto di chiederne lo sterminio. Purtroppo, le coincidenze di interessi del Male e dell’Orrore sono un qualcosa che dobbiamo mettere in conto, evitando però l’errore di rinchiuderle in un ghetto ideologico-religioso di buoni e cattivi, come nomi appuntati dal capo-classe a scuola durante l’assenza della maestra. Purtroppo, qui stiamo parlando di interessi miliardari. Multi-miliardari, a livello economico. E, ancor di più, strategici a livello di equilibri mondiali. E come in quella immaginaria classe, dove con il gesso si segna chi tira le palline e chi invece studia diligentemente, oggi il mondo sta patendo un periodo di vacanza di leadership consolidata: la maestra non c’è, si attende che arrivi chi la sostituisce. O, almeno, una supplente che tenga ordine.
Se riguardate bene quelle mappe, vedete come quel puntino insignificante in mezzo all’Oceano Indiano sia – di fatto – l’ombelico di un enorme mondo che si dipana lungo traiettorie che sono, a loro volta, coacervi di interessi: economici, finanziari, minerari, politici, commerciali, produttivi. Perché ora, perché in questo modo? Perché sfidare apertamente e in maniera così plateale nella sua dimostrazione di forza, un Paese che formalmente da dieci giorni era stato avvertito che qualcuno stava pianificando un attentato? Ripeto, chi è stato fermato dalla polizia magari è davvero responsabile, ma è soltanto una parte di un ingranaggio enorme che, purtroppo, non è farina del sacco del fanatismo. Non del tutto, almeno.
Certo, la manovalanza dei timer e dei detonatori ha compiuto quell’atto di macelleria di massa in nome di Allah o Buddha o chissà chi altro, magari. Ma come possiamo credere che davvero sia tutto una questione di noi contro loro? E, soprattutto, di loro in grado di uscire dal silenzio in maniera così onnipotente nell’atto vigliacco di plasmare la kora dell’Orrore, come moderno demiurgo di morte? Siamo dentro tempi pericolosi, sempre più pericolosi. Davanti a noi, oltre il Mediterraneo, un altro incubatore potenziale di violenza e destabilizzazione sta soffiando il proprio vento nelle vele di chi punta a governare il caos, le anime nere di cui vi parlo ormai da mesi e mesi. I cavalieri di ventura, quelli che sanno sempre quando entrare in scena, salvo uscirne un minuto prima che lo spettacolo finisca tra i fischi, lasciando ad altri l’onta della sconfitta o il peso del Male compiuto.
Perché adesso, il problema principale non sarà dare sepoltura a quei poveri resti, né portare alla sbarra i responsabili. Ora si apre la grande partita, l’asta per l’appalto del bene più grande, nel tempo della paura permanente: a chi affidarsi, per essere difeso, per non avere più paura? Chi offrirà allo Sri Lanka maggiori garanzie, affinché non si ripeta un’ecatombe simile? E chi lo deciderà, in un Paese in cui Presidente e Parlamento sono in guerra? Magari, quella divaricazione ora si farà più grande, la tensione fra le parti più palpabile, perché ci sono morti da piangere e parenti che vogliono giustizia. O, magari, vendetta. Chi offrirà loro il conforto che cercano e sotto quale forma?
Dalla risposta a quella domanda, si scoprirà anche chi gestirà quei punti di passaggio, quei golfi, quelle autostrade del mare, quelle infrastrutture. Ora che poi, magari, la rupia crollerà sul mercato e il debito estero diventerà ingestibile, perché il suo carico mostrerà la faccia feroce dell’insostenibilità strutturale. Qualcuno dovrà intervenire o, magari, si rischierà di ripiombare nella guerra civile, simile a quella delle Tigri Tamil che si credeva finalmente finita, insieme ai suoi lutti. O forse, l’idea è proprio quella, l’ennesimo proxy. Come lo Yemen, come la Siria, come il Venezuela, il Donbass. È un enorme Risiko, una partita a scacchi senza pietà, tutta incentrata sulla paura. Ma dietro le quinte, linde e azzimate grisaglie, indici di Borsa, costi del denaro, investimenti esteri, luccicanti infrastrutture inaugurate con tutti gli onori e foto di rito, champagne che scorre. O invece sarà davvero solo guerra di religione, sarà loro contro di noi, sarà occhio per occhio, sarà paura permanente, controlli sempre più stringenti in aeroporto per un flaconcino di collutorio. Mentre in Sri Lanka, a dieci giorni da un allarme specifico, l’Apocalisse ha trovato casa e rifugio proprio nel giorno della Resurrezione, nel suo tempio.
Rifletteteci, è troppo semplice per essere davvero vero. Come diceva Péguy, Cristo passa attraverso le ferite. L’Orrore, invece, ha il compito di provocarle. E, ancor più, quello di offrirti un responsabile pronto uso, di additarti il carnefice. Come quei sette arrestati, beffa senza pietà dopo il danno di una mattanza come tante altre, nuovo capitolo di una serie infinita che, ogni tanto, deve offrire un colpo di scena. Per tenerci incollati allo schermo.