È proprio vero che la storia si ripete e che se non la si ricorda se ne pagano le conseguenze. Come spiega il professor Marco Lombardi, docente di sociologia all’Università Cattolica di Milano ed esperto di terrorismo, è in Sri Lanka, durante la terribile guerra civile che devastò il paese per quasi dieci anni, che nacquero i “suicide bombers”, quelli che oggi chiamiamo kamikaze. Li utilizzavano le “Tigri del Tamil”, i ribelli islamici che combattevano il dominio buddista che da sempre regge l’isola. Se, dunque, pensiamo alla diaspora dei miliziani dell’Isis dopo la fine dello stato islamico – è più corretto, osserva Lombardi, parlare di diaspora e non di ritorno a casa dei foreign fighters –, si può capire perché è stata scelta la piccola isola nota ai più per le sue piante del tè. In Sri Lanka i miliziani di Siria e Iraq, che hanno conoscenze e ancora forti mezzi economici, sapevano di poter contare su quello che in realtà è un minuscolo gruppo islamista radicale, ma che poteva mettere a disposizione ben sette kamikaze contemporaneamente, cosa non facile da realizzare. Il motivo? Lanciare un messaggio di impatto globale, che ricordi al mondo come la jihad continui e continuerà, stato islamico o no.



È arrivata la rivendicazione dell’Isis, seppure 48 ore dopo, e il governo dello Sri Lanka guarda in quella direzione. Che elementi ci sono per dire che la matrice è quella?

È difficile dire Isis, in questo momento Daesh non esiste più. Dipende da cosa intendiamo per Isis. La struttura del califfato islamico non esiste più, però non sono venuti meno il messaggio e la strategia. Daesh è in cerca di eredi che sappiano incrementare la sua visione, per cui è plausibile anche la pista che porta ad al Qaeda.



Quindi?

Piuttosto che chiedersi se dietro gli attentati ci sia Daesh, è forse meglio chiedersi se dietro ci sono uomini provenienti da Siria e Iraq e qual è il legame che il National Thowheeth Jamàath (Ntj) poteva avere con loro. È qualcosa di diverso dal vecchio stato islamico.

Allora con che cosa abbiamo a che fare?

Di segni perché si possa parlare di Daesh o al Qaeda ne abbiamo in egual misura, perché comunque il Sudest asiatico e l’India sono da tempo una zona di conquista dell’islamismo radicale. Nel momento in cui nacque il califfato dell’Isis, nel 2014, fu proprio al-Zawahiri, il successore di Osama bin Laden, a dire che si sarebbero spostati a est, verso l’India e il Bangladesh. Il secondo dato, invece, conduce a Daesh: negli ultimi mesi abbiamo assistito a una propaganda molto serrata per globalizzare al massimo la jihad, che da un punto di vista organizzativo si fa forte dei flussi da rientro.



Cosa intende per flussi da rientro?

Preferirei chiamarla diaspora più che rientro, perché tutti noi pensiamo che i foreign fighters stiano tornando a casa, invece assistiamo a una drammatica diaspora. Tanti foreign fighters non stanno tornando o non viene permesso loro di rientrare nei paesi d’origine. È in atto, quindi, una diffusione liquida della jihad. Queste due cose messe insieme rendono difficile capire chi siano. Personalmente propendo per una rete internazionale che si è appoggiata su un gruppo locale per cogliere l’opportunità, ma sfruttando un network di competenze maturate in Siria e in Iraq.

Per organizzare un attentato del genere occorrono soldi. Perso il califfato, questa rete dispone ancora di ricchezze?

Purtroppo non è costosissimo ammazzare la gente. Ricordiamoci che una delle prime cose che il Daesh, ormai morente, ha detto è stata: non ci mancano i soldi, ne abbiamo per promuovere la globalizzazione della jiahd, non è un problema economico.

Sappiamo che dietro al terrorismo radicale islamista ci sono sempre state potenze straniere, come Arabia Saudita e Qatar. È possibile che adesso altre potenze stiano sfruttando questa diaspora, ad esempio la Cina che ha fortissimi interessi in quell’area?

Dietro al terrorismo come lo conosciamo oggi sono schierati in maniera alternata diversi paesi. Nel momento in cui ne parliamo come di uno degli attori della guerra ibrida, il terrorismo è soggetto a quei meccanismi di convergenze che ci sono sempre, anche se in questo contesto sono più volatili. La Siria ce lo continua a insegnare. Dietro ai vari gruppi islamisti non ci sono solo Qatar e Arabia Saudita, ma anche potenze occidentali, che hanno sfruttato a tempo debito quello che il terrorismo poteva offrire loro.

Siamo davanti a un nemico fantasma, che agisce in modi invisibili. È la nuova fase della jihad?

Questa Pasqua è stata drammatica, è stato un devastante attacco molto peggiore di quelli europei, di cui non si è parlato sufficienza.

In che senso?

Qualunque sia la matrice, l’obiettivo è destabilizzare a livello globale e quell’area in particolare.

Già, perché proprio lo Sri Lanka? Che Daesh voglia ricostruire un nuovo califfato sul terreno?

Lo Sri Lanka è un paese sfortunato. È uscito dallo tsunami, era appena uscito da una guerra civile, stava faticosamente trovando una fonte economica nel turismo e ora si ritrova messo in ginocchio e con una dimensione conflittuale interna. I cristiani sono il 7%, i musulmani il 10%, il resto è un buddismo nazionalista che brucia le chiese. La guerra tra minoranze mette in crisi tutto il paese e questo è uno dei risultati dell’attacco.

Che lezione dobbiamo trarre da questa tragedia?

Lo Sri Lanka è stato un palcoscenico locale per parlare a un’audience globale. Un gruppetto locale disposto a farsi saltare in aria non è facile da trovare, ma questo sta nella tradizione dell’isola. Il terrorismo nello Sri Lanka è stato il primo a usare i kamikaze, utilizzando anche le donne e i disabili. È tipico del paese. In più c’è la debolezza dell’intelligence: era un obiettivo facile, c’era l’opportunità di poter contare su un gruppetto poco controllato ma disposto al sacrificio, c’era il supporto di competenze da Siria e Iraq. Questa è stata una Pasqua terribile, che prelude a un futuro peggiore.

(Paolo Vites)