L’attentato di Bruxelles, perpetrato da un musulmano in scooter che ha aperto il fuoco e ucciso due svedesi in trasferta nella capitale d’Europa per la partita tra la loro nazionale e il Belgio, è una notizia diversa dalle altre, una notizia che segna – in qualche modo – un triplice spartiacque.
Il primo spartiacque è politico: la guerra d’ottobre tra Hamas ed Israele cessa di essere, se lo è mai stata, un conflitto locale e si trasforma in un’emergenza europea. I palestinesi, in prevalenza musulmani, si sentono schiacciati dalla controffensiva israeliana, sono consapevoli di essere alla vigilia di qualcosa di potenzialmente orribile. La consapevolezza di quanto sta per accadere non appartiene soltanto a chi vive a Gaza, ma è patrimonio dell’intero mondo islamico che in queste ore ha il fiato sospeso nell’attesa dell’annunciata ordalia.
È qui che singoli cani sciolti, lupi solitari, s’intestano la causa di Hamas – e più in generale dell’oppressione musulmana – per azioni che ripropongono la logica del 7 ottobre: l’uccisione del singolo infedele, l’attentato individuale che manda un messaggio e che tanto ricorda le modalità d’azione dell’ondata terroristica che prese le mosse, nello scorso decennio, dall’attentato a Charlie Hebdo per compiersi figurativamente nella notte del Bataclan. I teatri sono gli stessi, quei Paesi francofoni che hanno mostrato più di una debolezza nell’integrazione e nell’inclusione delle nuove generazioni di immigrati islamici.
Quello che oggi cambia è che lo spartito degli anni Dieci di questo secolo è adesso suonato come parte integrante del conflitto, e il rischio concreto – da oggi – è quello dell’emulazione e della reiterazione di questi gesti.
C’è poi uno spartiacque culturale che si compie nella notte di Bruxelles: è quello della piena assimilazione di Israele all’Occidente, visti come un’unica massa di infedeli che ha rinnegato Dio, respinto il Suo Profeta e strutturato un sistema di ingiustizie e soprusi ai danni del popolo di Allah. La solidarietà dei giorni scorsi delle democrazie occidentali all’unica democrazia mediorientale, che s’è trovata all’improvviso nell’occhio del ciclone di un’azione spietata e irrituale, ha contribuito ad allineare definitivamente Israele ai pagani del vecchio continente, accusati di essere empi e senza radici, dediti al nulla e proni nel proprio potere.
E questo è un fatto che certamente non può lasciare indifferenti neppure la Russia e la Cina, che in parte condividono quel giudizio, ma che – dall’altra parte – rischiano di trovarsi alleate con un certo mondo islamico che un domani potrebbe rappresentare uno degli argini più potenti alle loro politiche espansionistiche. Bruxelles, insomma, segna anche l’avvento di una nuova guerra culturale, destinata a dilaniare l’Occidente, ma anche gli stessi musulmani europei che, in numero sempre maggiore, sembrano prendere le distanze da tutto questo.
Infine, al terzo posto solo per amore di logica, c’è lo spartiacque più decisivo: la vita, con questo attentato che chiude questi primi dieci giorni di sangue attorno al rinnovato interesse per le vicende del Medio oriente, torna a valere nulla, torna a valere solo quello che rappresenta. Non c’è traccia dei sogni dei ragazzi uccisi al party israeliano, non c’è traccia dei desideri dei bimbi che muoiono sotto le bombe a Gaza, non c’è traccia dell’umanità delle due svedesi uccise nella capitale del Belgio. La vita è rappresentata da uomini e donne senza volto e senza nome, come nei videogiochi, dove il numero di morti – anonimi e inumani – corrisponde al numero di punti che il giocatore accumula per arrivare alla vittoria.
In questo spartiacque politico, culturale e umano, quale compito attende coloro che non si riconoscono in tutto questo e si proclamano cristiani? Un compito politico, che sappia interrogarsi sul vero significato della parola “integrazione”, un compito culturale, che smascheri l’impostura di un islam da combattimento che non ha più niente a che vedere né con la fede di molti musulmani né con le comunità che oggi vivono in Europa, comunità sconosciute e lontane perché poco incontrate. E infine un compito umano: incontrare ogni uomo, salutare ogni uomo, dal netturbino all’autista, dal manager al macellaio.
Incontrare ogni persona, di qualunque religione sia, a qualunque schieramento appartenga, per dare a quella persona un nome, un’identità, un volto che non possa ridurla a zero, a punteggio di un videogame.
È così che è iniziata la rivoluzione di Cristo, con Gesù che chiamava le persone per nome: Natanaele, Maria, Zaccheo, Marta. Nomi a cui l’uomo di Nazareth ha dato una storia, un valore, uno sguardo. È questo il compito dei cristiani d’Europa oggi. Un compito nuovo e urgente, disarmante e rivoluzionario: non permettere che i nemici di un tempo tornino vincitori, che nelle mani degli uomini resti solo la terra bruciata dalla loro guerra. Solo un elenco di nomi senza volto, senza storia, senza un perché. È urgente, oggi più che mai, per vincere la guerra – quella vera, quella decisiva contro il male e il peccato – conoscere il nome dei nostri vicini di casa.
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