Magdeburgo, in Sassonia-Anhalt, è il nuovo teatro di una strage che, al momento, coinvolge 71 persone (3 morti e 68 feriti) travolte da un’auto intenzionalmente penetrata nell’area del mercatino di Natale per seminare morte e dolore. L’attentatore è stato identificato in un cinquantenne di origini saudite, Taleb Jawad Hussein al Abdulmohsen, che, al termine dell’azione criminosa, avrebbe fermato il veicolo per scendere in strada e inginocchiarsi.
Difficile avere maggiori notizie, difficile capire di più in queste prime ore dopo la tragedia. Stando a quanto emerge dai contenuti social, pare addirittura che l’attentatore, ateo, accusi la Germania di voler “islamizzare l’Europa”, non opponendosi a sufficienza al wahhabismo dell’islam saudita. Dunque un’azione terroristica che sarebbe espressione non del jihadismo, ma di una oscura “opposizione liberale saudita”. Qualunque cosa si pensi sulla base di queste informazioni frammentarie e provvisorie, resta il fatto che il gesto segue un copione già visto molte volte in questo primo scorcio di secolo e ripropone questioni tormentate, ma inevitabili.
Questioni di ordine culturale: l’Occidente si rifiuta di affrontare l’odio che pervade molti settori del fondamentalismo verso ciò che l’Occidente stesso è, verso ciò che l’Occidente propugna come valori e definizione di sé. Joseph Ratzinger ripeteva spesso che il rischio più grande che avrebbe corso il continente europeo nel nuovo secolo sarebbe stato quello di un conflitto tra opposti estremismi: l’estremismo della cultura woke, che esaspera i valori fondanti dell’Europa per una barbara crociata sterminatrice di tutto ciò che è identitario e religioso, contro l’estremismo delle religioni, islamica e non solo, che quei valori disprezza e considera una degradazione empia dell’umano e della fede.
L’islam radicale, e se le ipotesi fossero confermate, anche i suoi nemici fanatici, attaccano per condannare, attaccano per farci espiare, attacca per redimerci. Agli occhi di questi uomini i cittadini di Magdeburgo sono un simbolo, non hanno storie né amici, non hanno desideri né famiglie: la loro morte è un segno di purificazione e di richiamo potente alla conversione. Ignorare questo tema culturale, come accade sistematicamente da due decenni, significa non riconoscere il problema, ignorare che due opposti odi, quello dei fanatici che abbattono le statue di Colombo e quelli dei fanatici che abbattono le famiglie ai mercatini di Natale, incriminano ciò che siamo e ciò abbiamo faticosamente costruito in quasi tre millenni di civiltà.
Tutto questo porta a una questione di ordine politico: attentati come quello in esame esasperano la percezione di una democrazia fragile e impotente, incapace di difendere i propri cittadini e di mobilitarsi perché tali fenomeni siano sradicati alla radice. Alimentano pertanto l’idea e la suggestione di soluzioni veloci, senza pensiero, frutto di condanne indiscriminate dell’islam e dell’immigrazione. Quindi soluzioni miopi, prive di una prospettiva e di una progettualità. Si potrebbe dire, con uno slogan da brividi, che siamo di fronti a gesti di estremismo che accendono reazioni di estremisti e che mettono sempre più in sofferenza le tradizioni popolari e socialdemocratiche del continente che hanno guidato la lunga stagione della pace dopo la Seconda guerra mondiale.
Infine c’è una questione umana che affonda le sue radici nella solitudine in cui affoga il continente. Siamo incapaci di stare insieme, di fare cose insieme, di costruire pezzi di vita insieme, sia che si chiamino “matrimonio” o “partito”, “scuola” o “associazione”: la nostra dimensione sociale è compromessa da un mondo che è diventato così on demand che non capisce più il senso del limite, delle regole, della presenza del volto dell’altro come argine al mio egoismo e alla mia bramosia. I terroristi si trovano davanti il vuoto, non incontrano più una civiltà, dei legami, un desiderio forte di bene comune. Essi stessi sono forse in parte cresciuti in un tale contesto, un insieme di idee e di pensieri che non può competere con la vera forza di ogni fondamentalismo: la promessa di un bene attraverso l’appartenenza. “Se tu sei dei nostri, se tu difendi il nostro ideale, allora la tua vita sarà meno sola, più buona, salvata”. Il cristianesimo ha sempre chiamato l’appartenenza con un nome rivoluzionario: comunione, ossia legame che ciascuno ha non con gli altri che appartengono alla comunità, ma con Colui che di quella comunità è la presenza fondante e viva.
Tam Pater nemo, diceva Massimo il Confessore, “nessuno è così padre come Dio”. Perché Egli non è un profeta che fonda una società col compito di conquistare il mondo, Egli è un Padre che guida per sempre – in quanto Risorto – una comunità capace di arrivare fino ai confini di ogni terra, laddove terra, nel mondo biblico, è il desiderio umano. È amando che si converte, è amando che ci si purifica, è amando che ci si riscatta. L’Occidente è un posto senza amore, dove attecchiscono i semi di un odio che genera altro odio e che – proprio come diceva Ratzinger – non può portare altro che alla distruzione.
Che cosa possiamo fare noi davanti alla devastazione folle di un mercatino a Magdeburgo? Tornare a vivere insieme, a fare insieme, a costruire legami e non idee, rapporti e non sentimenti. Dare vita ad una trama di relazioni che, come una rete in un campo da calcio, riesce a parare ogni malevolo tiro che riceve. Anche quello dissennato di un uomo che crede di cambiare il mondo uccidendo le storie che lo abitano. Proprio sotto Natale, proprio un attimo prima di celebrare l’unica ragione che abbiamo – quel Bambino in fasce a Betlemme – per smettere di credere che la rabbia sia la benzina della libertà.
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