Un attentato terroristico con la tecnica dell’autobomba ha sterminato a Mogadiscio 79, no di più, 87, le ultime informazioni dicono più di novanta persone, altre 200 sono ferite. Ci sono poliziotti, molti altri sono liceali che stavano lì, fermi, al checkpoint di sicurezza, su un bus. Ci sono anche due ingegneri turchi tra le vittime. L’attentatore vedendosi scoperto si è fatto saltare in aria, portandosi via nel Paradiso predicato dai jihadisti decine di poveretti.



La Somalia da parecchi anni – sin dal 1993 – è questo inferno. Si contano dal 2015 13 attentati che abbiano provocato ciascuno almeno 20 morti. Di essi undici sono stati compiuti nella capitale. La strage più spaventosa dell’intera storia somala fu opera di un camion bomba e fece nell’ottobre del 2017 512 (cinquecentododici) morti. Gli autori? In Somalia si sommano e si intersecano gli Shabaab, le Corti islamiche, affiliate ad Al Qaeda, che dominavano il Paese dopo il 2000 e che furono espulse da Mogadiscio nel 2011. Lo Stato islamico, dopo le sconfitte in Siria, ha ripiegato con molti suoi uomini qui. Gruppi tribali, sottosezioni di questo o quell’altro partito armato jihadista.



Sì certo, esiste un governo riconosciuto internazionalmente e sostenuto dai 22mila soldati (per lo più keniani ed etiopi) dell’Unione africana, ma è debolissimo. Il presidente eletto nel 2017, Mohamed Abdullahi Mohamed detto «Formaggio», in passato primo ministro, che fino all’agosto scorso aveva anche il passaporto americano a cui ha rinunciato per dimostrare il proprio patriottismo, controlla poco più di Villa Somalia, la sua residenza.

Una nostra connazionale, Silvia Romano, da più di un anno è stata rapita in Kenia, in quanto ritenuta colpevole di “proselitismo cristiano”, su mandato degli Shabaab, ed ora forse detenuta in prigionia nella foresta che sta tra Kenia e Somalia.



L’ultima volta che in Italia, prima di oggi, era stata nominata la Somalia sui giornali è stato quando, il 14 dicembre scorso, Giuseppe Conte ha detto che se il generale Haftar avesse messo piede a Tripoli “la Libia si sarebbe trasformata in una Somalia”. L’ha detto così, come se non avessimo alcuna responsabilità. Le altre potenze un tempo coloniali mantengono – per interesse, per ragioni storiche – un occhio forte su quei Paesi. In Somalia quando arrivai come inviato con il nostro esercito, in tanti parlavano italiano. Era il 1993. Sentivamo allora ancora il peso di una eredità. Avemmo dei morti tra i militari. Poi hanno dato la vita lì un’infermiera e una suora italiane. Poi opera la Caritas, per mezzo di personale locale.

Quest’ultimo attentato non è però visto come un fatto maturato localmente. L’Africa è attraversata da un’onda tellurica islamista. L’Isis cacciato da Siria e Iraq ha le sue basi nel sud della Libia, e ha rafforzato la sua presenza nel Sahel e nel Corno d’Africa, estendendola a molti dei Paesi del continente.

Di Shabaab abbiamo detto: colpisce in Somalia, ma anche in Kenya. Boko Haram insanguina la Nigeria e spesso sconfina in Niger, Ciad e Camerun. Il 27 dicembre i terroristi della Provincia dell’Africa Occidentale dello Stato islamico (Iswap), un gruppo jihadista legato all’Isis, hanno diffuso un video, rivendicando il massacro di 11 cristiani nel Nord-Est della Nigeria, per vendicare la morte del califfo, Abu Bakr al-Baghdadi. Gli attacchi colpiscono indiscriminatamente civili e istituzioni. Paesi dove i musulmani convivevano serenamente con i cristiani sono diventati teatro di stragi.

Si dice: guerra al terrorismo. Lo ha detto Sergio Mattarella, in un messaggio di commossa solidarietà con il popolo somalo. Ma chi la fa, questa guerra, e come? Non si vedono risposte credibili. Gli americani hanno lasciato l’Africa di fatto alla Cina e alla Russia, i quali hanno interessi di pura potenza. L’Europa sulla carta ha deciso forti investimenti, ma la storia dice che – se non passano attraverso eccellenti presenze umane comunitarie come l’italiana Avsi – finiscono divisi in due tronconi: metà per l’acquisto di armi e l’altra metà nei conti svizzeri dei leader di turno.

Testimonianze impressionanti di vita nuova, di solidarietà nel bisogno, coinvolgenti cattolici, evangelici e musulmani ci arrivano dall’Uganda, dalla Sierra Leone, dal Sudan. L’Italia – abbandonando improbabili pretese di condizionare il destino del mondo – potrebbe assumersi un compito che nessun altro vuole o capisce, e che invece è nelle nostre corde: difendere e promuovere queste esperienze, spendendo tutto il suo prestigio e la non indifferente forza culturale ma anche economica in questa missione. C’è qualche luce in Africa. Impediamo che sia spenta dalla violenza e dall’indifferenza.