È accaduto ieri alle 15 e 30. In una cittadina svedese di 12mila abitanti, con un nome da favola, Vetlanda, di quelle linde, con le ampie vetrate delle case per prendere il sole che d’inverno dura poche ore, un ragazzo di 20 anni, di cui si tace il nome, la nazionalità, la religione, ha accoltellato otto persone vicino alla stazione ferroviaria. L’autore del gesto criminale, una strage non riuscita, è stato ferito alle gambe con colpi d’arma da fuoco al momento dell’arresto. Dopo qualche ora si è accennato che “forse” poteva essere terrorismo. Il ministro dell’Interno Mikael Danberg è stato sul vago: “Attacco terribile, non è chiaro cosa sia successo, e quale movente ci fosse”. A notte l’ipotesi è stata confermata dalla polizia e dal ministro. Terrorismo.
A questo punto riempiamo noi i vuoti che il politicamente corretto impedisce di dire. Quel ragazzo è un islamico, ha agito per mostrare che la guerra dei fondamentalisti islamici non è mai finita. È come una scossa di avvertimento. Non è vero che l’attentato non sia riuscito perché non ci sono stati morti. Peccato veniale: vorrà dire che il killer sconterà una pena più breve, poi sarà pronto di nuovo per la jihad.
La notizia siamo sicuri faticherete a trovarla nelle prime pagine dei quotidiani italiani. Non perché il fatto è accaduto all’estero (la Svezia è Unione Europea, e non siamo diventati tutti forse europeisti?) e neppure perché ci sono stati “solo” 8 feriti, di cui 2 gravi, ma nessun morto. Il fatto è che questo nostro mondo ha imbottigliato, dalla politica all’opinione pubblica, testa e cuore, risorse e attenzione solo sulla pandemia. Al massimo tollera la distrazione (in Italia) del Festival di Sanremo, che ufficialmente è stato proposto proprio come occasione per dimenticare. Riusciamo a gestire una sola questione alla volta, per carità, ci manca pure che si debba occuparsi del cancro terroristico a matrice islamica. Aspetti il suo turno questa vecchia emergenza, per favore. Ora bisogna occuparsi del virus.
Si va avanti così: di problema in problema. Sempre sfuggendo l’essenza di tutti i drammi, prendendo a pretesto la gravità dell’ultimo guaio pur di tenere lontana la questione decisiva, rimandandola semmai a dopo che avremo battuto il nemico del momento.
Nel nostro Occidente – ma ormai non ci sono più confini – stiamo ostinatamente rifiutando il corpo a corpo di Giacobbe con l’angelo, pur di evitare di farci slogare l’anca, siamo pronti a lasciarci annegare nella paura e/o nella polemica sulle colpe, sui ritardi, eccetera. Tutto giusto. Ma accidenti la vita, la risposta quotidiana al perché alzarsi dal letto, mettersi la mascherina, accendere il computer, incalza adesso.
Quel ragazzo che ha preso il coltello e si è abbandonato alla forza diabolica di una salvezza fasulla, una pienezza di morte, viene da una disperazione che esisteva prima del Covid, e chiama tutti non tanto a una pur giusta vigilanza e ad una repressione sistematica. Questo tipo di discorso e di allarme è necessario, ma più che mai adesso è chiaro che non basta. Il Covid ha snudato la fragilità delle architravi su cui si regge la nostra convivenza, che chiamerei l’utopia ridicola di un nichilismo felice e in fondo sbarazzino. Ma ha anche svegliato in tanti un desiderio di essere buoni, di scoprire anche la gratuità del dono degli altri. La fraternità lumeggia qua e là. Impossibile, dicono il Covid e il terrorismo islamico uniti nella lotta. Dobbiamo aver il coraggio di accettare queste sfide, sapendole chiamare con il loro nome. Lottando insieme per non lasciarcene soffocare.
In questi giorni – risposta alla tragedia del Covid, al terrorismo, alla guerra, alla persecuzione – il Papa intraprende un viaggio che travolge quello che occupa la nostra piccola testolina. Sfonda l’orizzonte del Covid. Va in Iraq, la terra da cui partì Abramo e fu celebrata l’Alleanza tra Dio e l’uomo. Va a Qaraqosh. In tanti sono sicuro ricordiamo il filmato di quella bimba di dieci anni, tra gli sfollati dell’Isis, in un container. Si chiamava Myriam, disse: “Prego che Dio perdoni chi ci ha fatto del male”. Era fuggita con la famiglia da Qaraqosh per sistemarsi in un container al centro commerciale Ainkawadi di Erbil: mamma, papà, lei e una sorella. “Siamo felici qui dove siamo perché ovunque andiamo Dio è con noi”. Ripeteva: “Dio ama me. Ma non ama solo me. Ama tutti. Anche chi ci fa soffrire”.
Si ricomincia da questa misericordia fanciulla, nella lotta alla pandemia, al Covid, al non senso, alla morte e al male.