Ha squartato il sacrestano. Poi, come non sazio, ha sventrato col terrore e la morte due fedeli qualsiasi, andati dentro quella chiesa di Nizza, forse, solo per un Pater, un’Ave o un’altra piccola giaculatoria. Potevo essere io, oppure te, qualsiasi di noi: il terrore è all’ordine del giorno. La paura è un grido, il terrore è un sussurro: basterebbe questo per dire che a Nizza, nell’attimo della morte, “Io c’ero”.
C’ero quando c’era lui, Brahim Aoussaoui, 21 anni appena: “Uno scappato di casa, un illegale, un terrorista. Un uomo di merda!”. In questi casi la cosa più facile è mettere l’aggettivo qualificativo prima del sostantivo. Brahim è un uomo: punto. Che ha compiuto delle gesta infami, luride, ignominiose, bastarde, letali. Fosse un aggettivo, che colpa ne avrebbe? Siccome è un uomo – e riconoscerlo tale, in questi attimi, pare da cretini – allora sarà tutto responsabile del male compiuto. Non è una finezza, è grammatica intellettualmente onesta.
Il suo gesto non mi stupisce, sono anni che il terrore cerca di fare la voce grossa quaggiù. Sono anni, dunque, che dopo ognuno di questi gesti luridi, nel cuore inizia una battaglia serrata tra il Marco invincibile e il Marco vulnerabile. Il primo dice: “Sono invincibile, anche stavolta sono scampato alla mattanza!” Ma il secondo gli tiene i piedi per terra: “Non hai il terrore che accada un’altra volta, però?” Nell’attimo che segue uno scampato pericolo, qualunque sia la sua vera faccia “arriva un momento in cui un uomo preferirebbe morire subito colpito da un proiettile anziché restare in preda al terrore sconosciuto di un fantasma nella foresta” (Tahir Shah).
Di fronte alla morte scampata, c’è dunque un’altra morte in stato di parto, in avanzata libera. È l’elisir del terrore, la vera essenza di una logica nata per abbruttire il mondo unghia dopo unghia, decidendo che a causa della paura di morire valga la pena smettere di vivere. Il terrore ringrazia per la preferenza accordatagli.
“Proponi un’alternativa, dunque, forza!” potrebbe rinfacciarmi qualcuno. Non occorre proporla, lei si annuncia sempre puntuale nell’attimo stesso in cui il male sembra aver inferto il colpo del kappao. Nel web, dopo la strage di Nizza, è apparsa una foto: ritrae un ragazzo al quale vengono affidate le cure mediche. “Povero, guarda com’è ridotto! – penserà qualcuno –. Speriamo lo salvino, non merita d’essere conciato così”.
Poi la guardi bene e ti accorgi che quell’uomo giovane è esattamente Brahim Aoussauoi, colui che ha appena fatto fuori delle persone inermi che bisbigliavano orazioni soffuse dentro una chiesa. “Curare un assassino di quel calibro? Questa è follia: sparategli in fronte, mandatelo sotto terra!”, consiglia la folla. Invece no: bastano le manette.
L’hanno arrestato, non potrà più sparare. Allora, dopo, decidono di curargli le ferite. Mentre, spaesato, scrutavo quella foto, sentivo Charlie Chaplin gridare: “Credo nel potere del riso e delle lacrime come antidoto all’odio e al terrore”. È in momenti così definitivi, dove la lotta tra il Bene e il Male è spaventosamente ficcanaso, che avverto l’immensità dell’eredità cristiana avuta in dono. Amare il nemico: nulla sorpasserà mai quest’ambizione paradossale, questo paradosso così infernale d’apparire paradisiaco. “Ma quello è un assassino della peggiore specie, gente!” gridano. È il giudizio di chi pensa impossibile il ravvedimento di uno così. Eppure, se s’inginocchierà, pure a lui verranno confidate parole d’una dolcezza inusitata: “Va’, non peccare più!”. Che è come dire: una volta assolto tu sei un uomo nuovo”.
Abita esattamente qui, ai margini d’una foto persino strana da digerire, la follia dell’amore cristiano. “Siete tutti fulminati voi, andatevene in Chiesa a raccontarvi queste cose” diranno in molti. Erano andate proprio là, in una chiesa, quelle persone ammazzate. Il problema è che qualcuno, forse non credendo possibile l’amore, ha voluto portare dentro la morte. Per poi scoprire, una volta ammanettato, che per qualcuno la sua vita era ancora importante.