L’indice dei prezzi al consumo a maggio negli Stati Uniti è salito del 5%, contro attese del 4,7%, rispetto a un anno fa con l’incremento più alto da quasi tredici anni. Al netto della componente legata al cibo e all’energia, l’aumento dell’inflazione è stato il più alto dal 1992. Altre componenti dell’inflazione, per esempio il prezzo delle merci (escludendo quello dei servizi), è stato il più alto dal 1982.
Il mercato americano dopo la comunicazione del dato è salito a testimonianza che gli investitori non si attendono, per ora, un incremento dei tassi e scommettono che la Fed rimanderà i rialzi per evitare di compromettere la ripresa e la “salute” dei mercati finanziari. È anche per questo che alcune banche d’affari suggerivano l’ipotesi di una fase di “iperinflazione” transitoria. L’aggettivo è fuorviante perché l’incremento dei prezzi rimane e perché i salari, eventualmente, salgono solo dopo che i prezzi sono saliti e quindi l’inflazione nel frattempo pesa sui consumatori che si vedono erodere risparmi e redditi.
Per proteggersi dall’inflazione rimane l’investimento in azioni, infatti il mercato per ora continua a salire, e l’investimento in immobili con gli operatori finanziari, i grandi fondi, in America Blackrock, ma anche le famiglie più abbienti che fanno incetta di case da affittare. Le obbligazioni, invece, sono poco attraenti perché rendono meno dell’incremento dei prezzi. Il problema è politico perché chi non ha soldi o attivi a sufficienza per controbilanciare l’incremento dei prezzi, chi non ha immobili o risparmi investiti in borsa, non ha modo di proteggersi da questo fenomeno: fa fatica a fare la spesa, non riesce a comprare casa è costretto a pagare un affitto, artificialmente alto, che segue l’incremento dei prezzi immobiliari e non può vendere per controbilanciare azioni o case o riscuotere più affitti. L’unica “alternativa” è un sussidio statale che però invecchia in fretta.
Oggi siamo all’inizio di questo fenomeno e in una fase particolarissima di riapertura e quindi l’opinione pubblica non è aiutata a cogliere il cambiamento di paradigma. Tutto potrebbe rientrare se il fenomeno si dovesse attenuare nei prossimi mesi, ma se dovesse continuare il problema sarebbe tutto politico e le ragioni sono evidenti.
Dopo la crisi Lehman le banche centrali hanno stampato moneta, sostenuto i mercati e i governi hanno introdotto i sussidi eppure non si è assistito a un fenomeno così pronunciato. In parte, sicuramente, il fenomeno è stato poco pubblicizzato e nascosto nelle pieghe delle componenti dell’inflazione. In parte oggi le condizioni sono diverse. Bisogna sempre avere in mente che il crollo della natalità è un’enorme spinta strutturale deflattiva. La domanda a cui bisogna rispondere è perché questo incremento dei prezzi, e le riaperture, non si traducano in nuova capacità, in nuova offerta di case, in nuovi investimenti in energia e così via. Se i prezzi delle case “volano” ci si aspetterebbe che qualcuno ne costruisse di nuove; se il prezzo del rame, dell’acciaio e del legname salgono ci si aspetterebbe che qualcuno aprisse nuove miniere e costruisse nuove acciaierie; se i prezzi dell’energia salgono ci si aspetterebbe che qualcuno mettesse in produzione nuovi campi di gas. Questo non avviene.
Dopo Lehman il mercato ha potuto contare sulla nuova capacità costruita negli anni precedenti, oggi invece i nuovi investimenti non ci sono perché le regole ambientali, ma non solo, agiscono come un vincolo. Il crollo della natalità dissuade gli imprenditori a mettere in campo nuova capacità strutturale. I “soldi” vengono spesi in progetti di transizione energetica che saranno sostenibili ed efficienti solo nel lungo o nel lunghissimo periodo, ma che non risolvono il problema della domanda di energia attuale. La ristrutturazione delle catene di fornitura globale, per via delle tensioni geopolitiche, impedisce di beneficiare della produzione di Paesi a basso costo e rende strutturalmente più costosi i beni.
Quello che sta accadendo è che famiglie e consumatori sono obbligati a competere per l’acquisto dei beni con le banche centrali e con gli operatori che hanno accesso diretto. Un investitore finanziario che compra una casa da affittare emette debito “finanziato” dai programmi di immissione di liquidità. Questo operatore non si pone il problema del decremento dei numeri di consumatori potenziali e comunque deve trovare un’alternativa all’impiego di denaro in un mondo di tassi reali negativi. Le politiche delle banche centrali finanziano, ovviamente, anche i sussidi di disoccupazione degli Stati. Il problema però è innanzitutto politico.
Lo schema, se dovesse continuare, è destinato a scontrarsi con una realtà fatta di scarsità di beni, di erosione dei risparmi di una larga fetta della popolazione e di disoccupazione sia per l’effetto dei sussidi che per i vincoli sulle imprese. Ci rendiamo conto che la previsione suoni eccessivamente sinistra eppure tutti questi elementi sono già esperienza quotidiana: giovani che rimangono ai margini del mercato del lavoro, prezzi insostenibili, scarsità di beni. È un fenomeno transitorio solo se sono transitorie anche le condizioni che lo producono.
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