Non hanno grandi player capaci, singolarmente, di reggere il confronto con i grossi brand europei e occidentali dell’auto, ma una serie di aziende che hanno alzato il loro livello produttivo e qualitativo, e che insieme hanno guadagnato una grossa fetta di mercato. L’ascesa dei produttori cinesi, racconta Alberto Dell’Acqua, professore associato di finanza aziendale nell’Università delle Camere di Commercio Mercatorum di Roma, si spiega anche così: con un sistema di imprese ognuna delle quali, con un modello diverso, attacca la concorrenza dei marchi che finora l’avevano fatta da padroni. Grazie al costo del lavoro basso e al know-how occidentale, acquisito anche assumendo professionisti che hanno lavorato in Europa, hanno conquistato posizioni e ora rappresentano il 34% del mercato globale. Una quota destinata a crescere, facendo diminuire il peso degli altri marchi. Per far fronte alla Cina, alle aziende europee non basterà neanche attivare collaborazioni, sinergie o addirittura fusioni tra grandi gruppi. Sono in atto dinamiche che ormai sarà difficile fermare.



Professore, come si è modificato negli anni il mercato dell’auto mondiale e quanto pesano in questo momento le aziende cinesi?

La quota di mercato globale delle auto cinesi è passata dal 13,7% del 2008 al 34% del 2023, dunque è più che raddoppiata. Dipende da vari fattori: è cresciuta la domanda in Cina e in Asia, e contemporaneamente si è ridotto il numero di vetture vendute in Europa, su cui ha inciso anche il calo demografico. In più, una fetta del mercato europeo è stata presa dalle auto cinesi, da brand che prima nessuno conosceva.



Cosa dicono i dati di vendita oggi?

Se consideriamo singolarmente i principali brand, vediamo che Toyota è in testa e ha una quota di mercato del 10,60%. Seguono Volkswagen, Hyundai, Stellantis, Renault e via via gli altri. Ma se mettiamo insieme tutti i brand cinesi come Geely, Byd, Chery, Changan, la classifica cambia: vanno al primo posto, con una quota del 15,80%.

I numeri, quindi, cosa ci fanno capire?

Abbiamo due dati: uno, appunto, è che la quota di auto cinesi nel mondo è passata al 34%. Inoltre, a livello di principali marchi, quelli cinesi, considerati complessivamente, superano il primo in classifica. Poi c’è un altro aspetto, più qualitativo: i cinesi non hanno buone performance solo nel loro mercato, ma conquistano quote anche in quelli più maturi. Se ora rappresentano il 34%, possiamo aspettarci che crescano ancora, fino al 40-45%.



Come avviene la penetrazione dei mercati da parte dei cinesi?

Hanno questa strategia di attacco multibrand, per cui non c’è un solo produttore ma tanti, ognuno dei quali va a mangiare una fetta di mercato, proponendo modelli specifici che fanno concorrenza a una vettura commercializzata da altri brand, di cui replicano le linee. Ci sono alternative alla Volkswagen, alla Land Rover. L’ho toccato con mano: ho provato una Jaecoo ibrida che aveva la stessa linea della Land Rover, con finiture di qualità, sistema audio di Sony, garanzia di sette anni. Il prezzo è 31.700 euro, tre-quattro volte meno dei brand occidentali.

Una strategia che punta al ceto medio, fornendo la possibilità di acquistare prodotti del tutto simili a quelli più ambiti, ma a un costo notevolmente inferiore?

Per tutti i marchi premium di alto livello, i cinesi sfornano un’alternativa economica che non sfigura rispetto ai modelli più prestigiosi. Così mangiano quote a Stellantis, Mercedes: tante piccole erosioni che, sommate, fanno dei brand cinesi i primi del mercato. Un po’ come i cellulari: i marchi asiatici piano piano hanno conquistato il mercato della fascia medio-bassa, che è comunque un mercato che pesa.

Il livello tecnologico delle macchine realizzate in Cina tiene il confronto con i marchi occidentali?

I cinesi hanno raggiunto un livello tecnologico molto interessante. Certo, non sono come Mercedes, Bmw e Ferrari, ma questi tre marchi quanto pesano? Ferrari non è tra i primi in classifica, nemmeno Mercedes e Bmw, e Porsche a livello globale non conta molto. Il grosso del mercato lo fanno produttori di massa come Toyota e Volkswagen, che tuttavia sta valutando di chiudere tre fabbriche.

Insomma, ci sono tutti i segnali per una graduale conquista dei mercati da parte cinese?

La mia sensazione è che l’Europa si terrà i grandi marchi, come quelli appena citati, mentre la fascia intermedia, medio-bassa, verrà conquistata dai brand cinesi.

La situazione del settore automobilistico europeo è sotto gli occhi di tutti e la responsabilità della politica UE, con la scelta di puntare esclusivamente sulle auto elettriche, è evidente. A questo punto, però, per rilanciare il comparto non basta neanche cambiare la direttiva europea?

La spinta verso una transizione energetica così accelerata ha aggravato una situazione già complicata. Nasce da qui la scelta di Marchionne che ancora nel 2008, approfittando della crisi finanziaria, fece l’operazione con Chrysler: capì che da solo un brand piccolo come Fiat non poteva stare in piedi. L’aspetto vincente fu che permise a Fiat di aprirsi al mercato americano e contemporaneamente portò produzioni come Jeep in Italia, per cercare di realizzare un modello più europeo. Ora, però, in Europa i numeri scendono, perché cala la natalità e non so se l’apertura verso l’Est riuscirà a compensare la diminuzione dei residenti nella parte più occidentale del continente. I grandi mercati sono Cina, USA e Asia: l’auto del popolo la fanno lì.

Insomma il mondo che conoscevamo sta cambiando radicalmente. 

Sì, anche perché c’è poi un altro aspetto da considerare. Si può pensare di mettere insieme Stellantis e Renault oppure Stellantis e Volkswagen, creando un leader europeo per sopportare queste tensioni, rilanciare gli investimenti e tornare competitivi. Ma per fare le fusioni ci vogliono basi culturali comuni.

Qual è il problema in questo caso?

Quella fra Daimler e Chrysler fu ribattezzata la fusione fatta in paradiso, ma tedeschi e americani non si capivano, avevano schemi manageriali completamente diversi, tanto che si separarono. Fiat e Peugeot si sono messe insieme anche perché avevano una cultura comune: erano aziende familiari, con vedute simili. Ma gli altri non si possono unire così facilmente: sicuramente la Bmw non si metterà con la Mercedes.

La situazione dei cinesi, invece, qual è?

I cinesi hanno un grosso mercato interno che li sostiene e riescono ad agire con tanti brand, senza il bisogno di costituire un grande player. Un modello che li rende anche più resistenti a eventuali crisi: il loro è un sistema di network decentralizzati, sono quelli che resistono di più nel tempo. Basta pensare all’Italia e all’economia dei distretti, che ha fatto la nostra fortuna: un insieme di piccole e medie imprese, ciascuna magari fragile, ma collocate in un sistema che nella sua complessità era robusto.

Quali sono le condizioni che hanno permesso ai marchi cinesi di progredire in questo modo?

Il costo del lavoro è molto più basso; a questo si aggiunge la capacità di fare catch-up tecnologico. Un po’ della nostra tecnologia è finita in Cina: alcune produzioni di aziende automotive si sono spostate lì, trasferendo know-how. Le aziende cinesi, inoltre, assumono gli ingegneri dei brand occidentali più noti. La Jaecoo che ho provato è stata disegnata da ex ingegneri della Land Rover.

(Paolo Rossetti)

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