Miriam, Giulio e Manuel sono solo gli ultimi tre nomi di ragazzi assurti agli onori delle cronache nazionali per essere morti nella solita banalità del fine settimana, su una macchina di ritorno da una discoteca, guidata da un amico con un tasso alcolemico eccessivo, che ad un certo punto – la causa è ancora ignota – sbanda e lascia il guidatore praticamene illeso e i tre morti sul colpo.
Il motivo per cui il gruppetto di amici era uscito, ed era andato a ballare, è quella strana voglia di vivere per cui ogni giovane si sente chiamato ad afferrare la vita, il giorno e la notte, intercettandone la promessa che essa porta e che trova tutti desiderosi e impazienti di ottenere anche soltanto un pezzetto di felicità: c’è una nostalgia di poter recuperare nell’immediato futuro un bene antico – eppur promesso – che altera i confini della realtà e s’impone come più forte di ogni altro limite, come se, perseguendo quella fame di vita, non potesse mai succedere niente e l’esistenza fosse al sicuro da ogni incombente tragedia.
Purtroppo non è così. Ma il punto qui non è il senso di malcelata onnipotenza che accompagna la giovinezza, e neppure il dolore straziante di decine di genitori che settimanalmente si trovano in questa situazione. Il punto è la nostalgia che muove la vita a sfidare l’irrazionale e che oggi si configura come il vero messaggio che i nostri figli, i nostri alunni, i nostri giovani amici ci vogliono trasmettere: “Dateci il Bene che ci avete promesso!”. Alla luce di questa considerazione anche la settimana di Greta, e degli scioperi per il cambiamento climatico, assume un’altra prospettiva. Al di là delle querelle scientifiche sull’impatto del cosiddetto antropocene sul clima, dibattito difficile da dipanare su una testata online non specializzata da parte di un opinionista quasi a digiuno di scienza, quello che come insegnante non voglio perdermi di questo periodo è la percezione che i ragazzi stanno maturando di una ferita che il nostro modo di vivere ha inferto alla promessa di bene che la natura ci ha fatto. È come se si facesse ancora più strada la nostalgia di un paradiso che potere, denaro e violenza rischiano di precluderci per sempre. È l’intuizione di un dono, di una bellezza attesa, che non voglio perdermi!
Il limite di queste due percezioni, sia di quella dei tre ragazzi che corrono verso la morte che di quelli che scendono in piazza per la natura e per la vita, è che per entrambi il bene sperato o appartiene ad un passato ormai deturpato o ad un futuro da arraffare e conquistare. Manca, insomma, un’esperienza del presente. Educare oggi significa far fare esperienza del presente, di un presente non bastardo, ma Figlio di qualcosa in cui tutto germoglia e mantiene il “sogno” della vita.
Educare non è ammonire, trasmettere nozioni affinché ci si possa ubriacare il venerdì sera senza ammazzarsi o rendere l’altro campione di un’etica per cui egli riesca sempre a svicolarsi dalle conseguenze di ogni responsabilizzazione possibile. Educare oggi significa offrire un bene presente, qualcosa di più grande di ogni nostro bene rubato e di ogni nostro possibile errore verso la “casa comune” che è la terra. Significa offrire un rapporto, una paternità, che tutti aspettano. Sia chi corre in autostrada, sia chi manifesta in una piazza.
Vediamo di non essere così ottusi da restare sordi alla domanda che questa generazione ci pone, che è quella di un Padre. Che è quella di adulti che sappiano ancora essere figli.