Continuano le trattative in Europa, dopo il voto del Parlamento europeo che ha previsto la proibizione della vendita di auto a benzina e diesel a partire dal 2035 nell’ambito del programma di politiche ambientali Fit-for-55. Prima di entrare in vigore, la norma deve essere approvata anche dal Consiglio europeo e alcuni Paesi, fra cui la Germania e l’Italia, stanno spingendo per ottenere modifiche, prima della sua approvazione, in una direzione di maggiore flessibilità, tale da mitigare le conseguenze negative nei Paesi in questione.
Prima di addentrarci nei motivi delle preoccupazioni tedesche e italiane, è bene ricordare la procedura decisionale nella complessa architettura istituzionale europea. Parlamento europeo e Consiglio europeo decidono con regole diverse. Nel primo, serve la maggioranza degli eletti. Generalmente, gli schieramenti parlamentari favorevoli o contrari alle norme non riflettono, se non in minima parte, una differenza per Stato, ma piuttosto una differenza per colore politico. Così, il blocco alle auto a benzina e diesel è stato votato da una maggioranza di partiti di centrosinistra che corrispondono grosso modo ai blocchi socialista, verde e di sinistra (che attualmente rappresentano in larga parte l’opposizione in Italia), mentre è stato osteggiato dal blocco di centrodestra, corrispondente grosso modo al Partito popolare europeo e ai conservatori (e ai partiti di maggioranza in Italia). Nel Consiglio europeo, invece, votano i capi di governo (per l’Italia, il presidente del Consiglio) dei 27 Stati membri. L’approvazione di una proposta richiede il voto favorevole di almeno 15 dei 27 capi di governo, nonché il voto favorevole di capi di governo che rappresentino almeno il 65% della popolazione europea.
Dopo l’approvazione in Parlamento, con 340 voti favorevoli e 279 contrari, adesso la palla è passata al Consiglio, dove diversi Paesi – oltre all’Italia e alla Germania, Bulgaria, Polonia e, seppur in modo più sfumato, Austria e Repubblica Ceca – manifestano perplessità. Il voto contrario di quattro di essi, fra cui Germania e Italia, impedirebbe di raggiungere il consenso del 65% della popolazione europea, e quindi pregiudicherebbe l’adozione della norma. In attesa di raggiungere un accordo, per non correre il rischio di un voto negativo nel Consiglio, il tema è stato nelle ultime settimane rinviato.
L’obiettivo della norma consiste nel favorire la transizione energetica, puntando sull’auto elettrica ed eliminando il motore endotermico. Alla base, vi è l’idea che il passaggio all’elettrificazione riduca l’inquinamento e le emissioni, e contribuisca all’obiettivo di neutralità carbonica, cioè alla sostanziale uguaglianza fra emissioni prodotte e emissioni assorbite, che l’Unione europea si è posta per il 2050.
Da che cosa deriva, nella sostanza, l’opposizione alla norma? Come sempre accade in politica economica, da un insieme multiforme di interessi particolari e di voci che negano l’importanza del tema ambientale, unita però a obiezioni sensate e dotate di fondamento logico. Vediamo di approfondire queste ultime, che potremmo riassumere in cinque punti: che l’elettrificazione non sia efficace nell’abbattere le emissioni; che aumenti la dipendenza energetica dell’Europa, in particolare dalla Cina; che abbia ricadute negative sulle economie dei Paesi che la adottano, con conseguente rischio di reazioni negative da parte dell’opinione pubblica; che non consenta una sufficiente flessibilità per raggiungere gli obiettivi con gli strumenti ogni Paese ritiene più adatti; che blocchi l’innovazione tecnologica nei motori endotermici.
In primo luogo, alcuni mettono in dubbio che l’elettrificazione effettivamente apporti benefici in termini di riduzione dell’inquinamento e delle emissioni. Questo punto è complesso, anche perché dipende in modo fondamentale dalle fonti utilizzate per la produzione di elettricità, che richiede che l’elettrificazione e il passaggio alle rinnovabili procedano di pari passo. Per la sua complessità, esso verrà trattato a parte, che verrà presentata in un prossimo articolo.
Un’ulteriore obiezione riguarda la dipendenza energetica. La transizione all’elettrificazione e alle rinnovabili complessivamente richiederà un imponente quantitativo di metalli che, secondo le stime di Bloomberg, potrebbe valere, da qui al 2050, più di 10mila miliardi di dollari. L’Europa è sostanzialmente sprovvista di metalli. Il controllo di molti di essi è nelle mani della Cina, da cui siamo destinati a dipendere per le forniture. La Cina detiene direttamente la quasi totalità delle riserve di terre rare e grafite, e possiede e controlla le miniere di diversi altri metalli, localizzati in giro per il mondo. Ad esempio, la Cina controlla gran parte del cobalto (localizzato nella Repubblica Democratica del Congo e in Indonesia) e del nichel indonesiano. In aggiunta, la Cina continua a detenere quote altissime degli stoccaggi dei diversi minerali: secondo JPMorgan, il 93% delle scorte mondiali di rame e il 74% di quelle di alluminio.
Come se non bastasse, la Cina è anche leader indiscusso nella raffinazione delle terre rare, settore in cui, anche in questo caso, l’Europa è in forte ritardo. Gli investimenti in raffinazione richiedono tempo e occorre programmarli con largo anticipo. Ci si chiede, quindi, se abbia senso affidare la transizione ecologica alla benevolenza cinese, o, in alternativa, quale strategia l’Europa debba mettere per rimediare alle proprie debolezze nei settori estrattivi e della raffinazione.
In terzo luogo, come discusso nel precedente articolo, si fa notare l’impatto asimmetrico sui diversi territori. L’Italia, molto concentrata sulla filiera dell’automotive e sul motore endotermico, rischia di subire le conseguenze più pesanti dal processo. Oltre alle conseguenze negative sull’economia derivanti dalla perdita di posti di lavoro e, di conseguenza, dall’impoverimento della nazione, il rischio concreto è che il processo generi una reazione negativa dell’opinione pubblica, tale da favorire l’elezione di forze politiche a esso contrarie, che decidono di bloccarlo. Per questo alcuni Paesi, fra cui l’Italia, spingono per la creazione di un fondo sovrano in grado di compensare i Paesi che subiscono le conseguenze più pesanti.
Inoltre – e questo è il tema su cui si sta concentrando il dibattito europeo attuale – si fa notare la mancanza di flessibilità dell’obiettivo. La Germania vorrebbe che si consentissero anche i carburanti sintetici prodotti con rinnovabili (i cosiddetti e-fuels), cioè, sostanzialmente, idrogeno, prodotto usando soltanto fonti rinnovabili e utilizzando CO2 sequestrata dall’atmosfera. L’Italia punta ad aggiungere alla lista di carburanti permessi anche i biocombustibili. Il vantaggio è che entrambi i carburanti sono compatibili con i motori endotermici, che, quindi, potrebbero continuare a essere prodotti anche dopo il 2050. Inoltre, si potrebbe realizzare l’ulteriore vantaggio di potere utilizzare l’attuale rete di distribuzione dei carburanti, che potrebbe dunque avere un utilizzo. Lo svantaggio è che si tratta di processi ad alta intensità energetica, nei quali poi è difficile certificare l’effettiva origine del carburante con fonti rinnovabili. In generale, chi critica la scarsa flessibilità dello strumento ritiene che si debba privilegiare la neutralità tecnologica, che non va a incidere sul tipo di tecnologie, ma solo sull’obiettivo.
Infine, la neutralità tecnologica, e la possibilità di salvaguardare il motore endotermico con e-fuels (o eventualmente biocarburanti) avrebbe in questo caso l’ulteriore vantaggio di non disincentivare lo sviluppo tecnologico nel settore dei motori endotermici in Europa, che verrebbe invece abbandonata nel caso di transizione obbligata all’elettrico.
In conclusione, la complessa articolazione dei vantaggi e degli svantaggi dell’elettrificazione forzata del settore automotive (e la relativa messa al bando dei veicoli non elettrici), unita agli evidenti margini di incertezza su quale mondo ci attenderà nel 2050, rende molto difficile stabilire se l’elettrificazione sia l’unica strada per abbattere le emissioni nel trasporto. Quel che appare certo è che ci sono ragioni legittime per nutrire dubbi: occorrerebbe trovare il massimo consenso trasversale possibile, a livello politico, onde evitare il rischio di stop and go, cioè di politiche che poi sono ribaltate. Gli investimenti improduttivi che, in quel caso, scaturirebbero, nuocerebbero alla credibilità del Paese e all’economia in generale.
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