Caro direttore,
ieri la mia Punto 1.3 diesel ha compiuto 200mila km, percorsi in 9 anni con uso prevalentemente familiare. Speravo di non vedere questo numero sul cruscotto, avrei voluto cambiarla quest’anno, ma anche l’anno prima e quello prima ancora e l’avevo acquistata con quelle formule per cui dopo un po’ potevi darla indietro e prenderne un’altra… Ma niente. A un certo punto mi ero posto anche il problema se prenderla elettrica. Ma da qualche mese, con l’annuncio della crisi Volkswagen, tutti dicono che non è il momento. Lunedì è arrivato anche l’annuncio ufficiale dei numeri di licenziamenti (1.600 su circa 7mila) dell’unica gigafactory europea Northvolt, ex-start-up svedese, finanziata dall’UE quale punto strategico del Green Deal e partecipata dalla stessa Volkswagen, Volvo e altri, compresi banche e fondi vari.



Cosa è successo e cosa c’entra la piccola storia di un consumatore medio, in senso generale, compreso il potere d’acquisto e i gusti in fatto di auto?

La Gazzetta dello Sport ha pubblicato un interessante articolo su quanti stipendi di insegnante occorrevano negli anni 60 per acquistare un’auto e quanti ne occorrono oggi (statisticamente significativo, perché gli stipendi non sono aumentati!). In sintesi era più “facile” comprare una city car 64 anni fa che oggi, mentre è leggermente più conveniente comprare certe auto di lusso (questo è solo un esempio statistico, il binomio insegnante/auto di lusso è un paradosso).



Questa evidenza, sancita dal popolare quotidiano rosa, sembra non interessare a nessuno. O meglio, affrontare un tema così complesso come Green Deal, transizione sostenibile (cioè passare da un sistema ad un altro tenendo conto di tutte le conseguenze) è troppo faticoso per i nostri meccanismi di pregiudizi cognitivi che ci fanno risparmiare la fatica di ragionare. Accettiamo allora, solo per pigrizia, di scegliere la parte per cui tifare, mettendo insieme qualche esperto che sigilli la giustezza della nostra posizione: “Il Green Deal è di sinistra”, “difendere l’industria dell’auto è di destra”, “in Europa solo lobbies e burocrati”, “difendiamo le nostre produzioni”, ecc. ecc. L’obsolescenza di questi meccanismi della conoscenza e della comprensione è evidente e comprovata: infatti, pur essendo ancora efficienti (il pregiudizio fa risparmiare energia) non sono più competitivi rispetto ad altri basati su idee o processi più evoluti. Eppure siamo ancora fermi qua.



Si può parlare (e lavorare) veramente e realisticamente per un nuovo modello di sviluppo? È possibile avere ancora l’assioma auto = sviluppo, a 171 anni dal primo brevetto (italiano) del motore a scoppio? Oltre ad averne quasi una a testa, senza neanche sapere dove metterle, e cambiarle spesso, cosa dobbiamo fare per garantire i consumi?

Il Rapporto Draghi ha criticato la timidezza europea nell’innovare: la cronaca dell’industria automobilistica e il suo tentativo di elettrificazione possono dirci molto.

La sfida sul campo era ed è la batteria, cioè un sistema di accumulo di energia che deve essere totalmente recuperabile e riciclabile, sostenibile ambientalmente e socialmente (non fare danni maggiori dei benefici in tutte le sue fasi di produzione) e a costi accessibili, più o meno competitivi (appuntiamoci questa parola magica). La batteria in questa fase storica è il ponte energetico per sfruttare appieno le discontinue fonti rinnovabili, l’automotive ne è solo un’applicazione, anche se compartecipe del sistema energetico (la diffusione delle auto elettriche consentirebbe di avere una gigantesca batteria di accumulo che prende e dà energia alla rete).

L’auto di massa poteva essere il driver applicativo per unire l’utile – lo sviluppo della filiera buona Made in Europe della batteria – con il dilettevole, cioè una transizione dolce che garantisse stabilità e remunerazione ad un sistema industriale che aveva già dato segnali di difficoltà.

Cosa non ha funzionato? Da parte della UE, il volare in alto diventa troppo spesso diventare di fatto lontani da una realtà molto più articolata e complessa. Ma anche la scelta di investire in modo cerchiobottista: tanto ma non abbastanza, in modo innovativo (batteria al litio) ma non troppo (batteria al sodio o nuovi accumulatori di III o IV generazione), puntare su un prodotto per la mobilità e non su un sistema della mobilità, affidarsi ad una industriale, quella automobilistica, player imprescindibile ma che è vittima e carnefice di una situazione industriale vecchia come l’Europa (vedi Draghi) e che si muove solo su garanzie pubbliche (legislazione, aiuti, finanziamenti). In questo Volkswagen è “la peggio Fiat che abbiamo visto” (quella che aveva commesse garantite da Polizia, Carabinieri ed Esercito, Pa) rigida come solo i tedeschi sanno essere, salvo permettersi qualche libertà ogni tanto (leggi Dieselgate).

L’auto elettrica è solo l’ultimo palcoscenico di una lotta tra un modello di sviluppo sempre meno equo e sempre più insoddisfacente e un’alternativa sentita necessaria ma che non ha ancora la stessa percezione e attrattiva di breve periodo e le stesse energie.

Eppure la possibilità di ricerca di altre strade viene spesso schiacciata dal pressante e ineluttabile bisogno di competitività, la parola magica. Anche qui, può aiutarci attingere alle cronache della Gazzetta: il grande successo delle Paralimpiadi sarebbe possibile se non ci fossero regole diverse dalle Olimpiadi?

Perché allora devo confrontarmi costantemente con Cina, India e altri sistemi che, alla base, hanno condizioni per noi inaccettabili? Nel sogno del Green Deal, magari scritto in piccolo e male, io ho visto la possibilità di fare le nostre regole e giocare e dire al mondo che è possibile. Il Piano Mattei, che ha senso se europeo, nasce da questo bagaglio culturale e valoriale ma che poi rischia di infrangersi sulle rocce dell’urgenza di dare risposte per il consenso e per il profitto del tutto e subito.

Se non riusciamo a fare la batteria europea, faremo altro, ma è una sconfitta che dice che la conquista cinese delle risorse africane con corruzione e violenza, i sistemi antidemocratici, i disastri ambientali per essere competitivi, non sono il massimo ma sono accettabili per avere le nostre ricche/povere certezze.

Niente è scontato, neanche la bontà di quel che dice Draghi, ma un momento per riflettere bisogna prenderselo, per mettere in discussione che forse si può inventare qualcosa per essere più efficaci, magari riprogettando processi e smettendo di pagare tanto per avere poco (rendite e strapotere di vecchie volpi) e pagare poco per avere molto da giovani ancora disponibili ad un cambiamento.

Le democrazie sono lente per definizione, ma ne vale la pena per un reale bene veramente comune. Il resto sembra alternativo ma è un pessimo affare per tutti.

Intanto, oggi, ho preso il treno.

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