Colonnine inadeguate come numero e qualità, industria europea in ritardo rispetto ai cinesi e una UE che ha voluto imporre la transizione alle auto elettriche senza tenere conto che le grandi rivoluzioni tecnologiche non funzionano così. La diffusione dei cellulari, spiega Alberto Dell’Acqua, docente di finanza aziendale della SDA Bocconi, non è avvenuta perché è stata abolita per legge la telefonia fissa, ma perché la gente ha visto che erano la soluzione migliore. Così non è per le auto elettriche, che infatti vengono rifiutate dal mercato. Ora, per le aziende europee, sono tempi durissimi: per sopravvivere potrebbero aggregarsi ulteriormente formando grossi gruppi, ma sarebbero alleanze difensive che comporterebbero comunque chiusure di fabbriche. Sta a loro, però, indicare quale può essere la strada per non mettere in crisi il comparto, chiedendo all’Unione Europea di rimediare ai suoi errori, senza subire i suoi diktat.
Quali sono le prospettive del settore automotive?
Sono nel Cda di una società che raggruppa concessionarie nel Centro Italia e, grazie alla mia esperienza, posso dire quali sono le dinamiche attuali del mercato. L’accelerazione delle politiche comunitarie sulla transizione energetica, in prima battuta, ha creato un problema di infrastrutture. Per avere veicoli elettrici in circolazione occorrono le colonnine, ma le infrastrutture di ricarica, almeno in Italia, coprono solo parzialmente tutte le aree nazionali. Inoltre, le prime colonnine installate erano a ricarica lenta, mentre ora quelle a corrente diretta permettono una ricarica più veloce. Con lo sviluppo di nuovi veicoli c’è la necessità di colonnine più performanti, ma le vecchie colonnine non sempre sono state rimpiazzate.
Quindi le colonnine sono poche ma alcune sono già sorpassate?
Per una ricarica ci vuole circa mezz’ora. Non solo: alcune società hanno visto che non c’erano ancora così tanti veicoli elettrici e hanno rallentato gli investimenti per le infrastrutture in questo settore. Enel, per esempio, ha diminuito le attività sulla transizione energetica: l’investimento al momento non è giustificato da un ritorno adeguato.
Il grande problema però riguarda le grandi case automobilistiche europee: anche qui il ritorno non è proporzionato agli investimenti fatti?
Le case automobilistiche europee si sono mosse tardi per convertire la produzione nei veicoli elettrici, hanno dovuto affrontare investimenti che pongono problemi di ritorni incerti, quanto meno nei tempi e forse anche negli importi. Questo mentre l’industria automobilistica cinese è molto avanti nella realizzazione di veicoli elettrici. Il portafoglio di marchi cinesi è molto ampio, producono con una qualità superiore ai veicoli europei. Alcuni marchi vengono già messi sul mercato da grossi distributori italiani.
Il piano UE per arrivare all’elettrico nel 2035 non ha tenuto conto delle conseguenze dal punto di vista industriale e occupazionale?
Le ultime statistiche dicono che i veicoli elettrici rappresentano il 4% del totale delle vendite nel 2023, in crescita del 35%. Una percentuale, quest’ultima, che non deve ingannare, perché è il 35% di poco. Nello stock complessivo dei veicoli la parte elettrica, invece, è sotto l’1%. Non so se si cercherà, con il PNRR o il piano Draghi, di spingere i veicoli con altri incentivi. In un libero mercato non credo che la soluzione sia vietare l’uso di veicoli endotermici, sarebbe un disastro. Vista la direttiva europea, se fossi un produttore mi comporterei come Volkswagen, che chiude le fabbriche, o cercherei di convertire la produzione solo nei veicoli elettrici. Come consumatore continuerei a tenermi i veicoli che ho.
Ci vorrà una revisione del piano UE? Perlomeno dovrà essere diluito nei tempi: alla fine la gente non risponde al richiamo dell’elettrico. Bisognerà pure tenerne conto, no?
Oggi tutti abbiamo il cellulare, ma non c’è stata una norma che ha detto “vietiamo il telefono fisso”. La domanda si è rivolta verso il telefonino e gradualmente si è transitati dalla telefonia su rete fissa a quella su rete mobile, fermo restando che quella fissa esiste ancora. Per imporre definitivamente il veicolo elettrico, ci dovrebbe essere un riconoscimento da parte del consumatore che il motore elettrico è migliore rispetto a quello endotermico. Ma questo non sta accadendo. Nella storia le tecnologie non si sono diffuse per imposizione, ma perché la gente le ha ritenute migliori.
Prendiamo un aspetto molto pratico: se parliamo anche solo del rifornimento, è difficile convincere una persona che ora si rifornisce in un minuto ad aspettare almeno mezz’ora.
Mettiamo che si arrivi a un minutaggio accettabile: se oggi mi oriento su una marca europea, però, pago molto; una 500 elettrica costa 30mila euro. Potrei dire che ci guadagno con il tempo perché non compro più la benzina, ma ci metto comunque molto a ripagare l’investimento. Se non c’è convenienza economica né comfort di utilizzo, quale vantaggio ho a comprare l’elettrico? Inoltre, se mi rifornisco alle colonnine, sto attivando forme di produzione di energia elettrica ancora di natura fossile.
Volkswagen vuole chiudere stabilimenti, BMW perde in Borsa, Stellantis ha un futuro incerto. Se fosse l’amministratore delegato di un grosso gruppo, cosa farebbe oggi?
La situazione potrebbe spingere verso ulteriori aggregazioni, però non sarebbero accrescitive, ma sottrattive: si cercherebbe di sopravvivere, più che creare un colosso globale. In Cina ci sono decine di produttori di auto con numeri importanti grazie al mercato cinese e asiatico. Qui, invece, i produttori potrebbero unirsi per evitare di fallire. Intanto dovrebbero chiudere alcune fabbriche. Magari ne rimane anche solo uno, ma a fronte di almeno venti cinesi. La situazione è critica.
Si tratterebbe quindi di una strategia solo difensiva?
Sì, quella attuale è una logica difensiva. Gli investimenti sono stati fatti e i ritorni sono magri sull’elettrico, la concorrenza dei cinesi è pronta e, una volta realizzate le infrastrutture, una fetta di mercato probabilmente se la prenderanno loro.
Non si potrebbe perseguire l’obiettivo delle emissioni zero puntando anche su altro rispetto all’elettrico?
Questo è un ragionamento di buon senso, ma bisogna capire quanto è acuta la crisi, se la frittata è fatta o se si può ancora salvare qualcosa. Anche i dazi non sono una soluzione: si innescherebbe una guerra che non gioverebbe all’export europeo. Forse se avessimo avuto centrali nucleari, avremmo una fonte di produzione autonoma a relativo impatto ambientale (salvo catastrofi) e a quel punto l’industria avrebbe accelerato la conversione verso l’elettrico.
Se si comincia a chiudere le fabbriche senza capire come rilanciare il settore, se ne chiuderanno delle altre?
Il settore è strategico per l’economia europea. Mi meraviglio che, essendo i principali produttori tedeschi, non siano state fatte azioni lobbistiche per guidare le politiche della UE. Sembra che le abbiano subite passivamente. E oggi nascono i problemi.
Una soluzione, insomma, non c’è?
Bisognerebbe chiedere agli addetti del settore. Luca De Meo, CEO di Renault, che aveva lavorato con Marchionne, ha lanciato più di un allarme sull’industria europea dell’automotive. Sono le aziende che devono farsi venire un’idea, per poi convincere la UE a sostenerla.
(Paolo Rossetti)
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