“Le auto elettriche incentivano la schiavitù”. A sostenerlo, come riportato da La Verità, è un libro-inchiesta di Siddarth Kara, docente alla British Academy e alla Nottingham University nonché tra i massimi esperti dei problemi del terzo mondo di schiavitù, dal titolo “Rosso Cobalto”, pubblicato dalla casa editrice People. Lo scrittore ha svolto un accurato lavoro sul campo in Congo, dove si trovano le principali miniere di cobalto, minerale indispensabile per la realizzazione delle batterie.
L’aumento della domanda di cobalto prevista dal 2018 al 2050 è del +500% e a rimetterci, secondo lo studio, saranno proprio i più deboli. “Il continuo sfruttamento delle persone più povere del Congo da parte di ricchi e potenti contraddice i supposti fondamenti etici della civilizzazione contemporanea e ci trascina ai tempi in cui le genti dell’Africa erano valutate solo in base al costo del loro rimpiazzo. Le implicazioni di questa regressione morale, che è una forma di violenza in sé stessa, vanno ben oltre l’Africa centrale, allargandosi all’intero Sud del mondo, dove una vasta sottoclasse dell’umanità continua a trascinarsi in un’esistenza subumana in condizioni di simil-schiavitù al fondo dell’ordine economico globale”, scrive l’autore.
Auto elettriche incentivano schiavitù: il libro-inchiesta di Siddarth Kara
Siddarth Kara ritiene che alle spalle degli ambientalisti che spingono per le auto elettriche ci sia un business preoccupante, al punto che la produzione di queste ultime potrebbe in un futuro prossimo incentivare la schiavitù. “Le cose sono cambiate molto meno di quanto siamo disposti ad ammettere, dai tempi del colonialismo. La dura realtà dell’estrazione del cobalto in Congo è un inconveniente per ogni stakeholder nella filiera”, ha evidenziato.
È per questo motivo che il professore intende mettere in luce il drammatico fenomeno. “Nessuna azienda vuole riconoscere il fatto che le batterie ricaricabili di smartphone, tablet, computer portatili e auto elettriche contengono cobalto estratto da braccianti e bambini in condizioni pericolose. Nei comunicati, le imprese all’apice della catena del cobalto sono solite citare il proprio rispetto delle norme internazionali sui diritti umani, le politiche di tolleranza zero verso il lavoro minorile o l’adesione ai più alti standard di valutazione della linea produttiva”, ha concluso.