Di fronte al domani, a ogni domani, ci sono sempre almeno due strade: chiudere gli occhi e tirare a campare oppure chiudere gli occhi e tirare a morire. Normalmente in Italia si optava per la prima via (al grido di “O Franza o Spagna pur che se magna”), ultimamente sembra che la seconda invece tiri di più. 



Divenuti ardenti adepti del Vaffa, a esso affidiamo, pieni di speranzosa acrimonia, il nostro benessere futuro. Siamo i nuovi arditi: quelli che un insulto e uno smoccolamento non lo neghiamo a nessuno, parchi di ragionamenti ma ricchi di risentimento.

L’altro giorno, tra una bomba nella guerra (pardon: nella “operazione speciale antinazista”) russa contro l’Ucraina, e un incremento della fame in Africa (d’altronde Putin se ne intende: quanti dei suoi sostenitori nostrani vorrebbero andare a vivere in un ameno villaggio siberiano al di là degli Urali fruendo dei lauti stipendi locali? Perfino Santoro dimagrirebbe); dicevamo, l’altro giorno detona il vero problema italico: dal 2035 in Europa non si venderanno più le auto con motore a scoppio. 



Ecco finalmente, avrà pensato qualche pensatore benpensante, uno scoppio con cui far dimenticare altri, ben più tragiche deflagrazioni. E allora daje! 

Ma come: l’Europa vuole davvero inibire l’eccitazione generale provocata nei passanti fermi ai semafori dal vroom di performanti quattroruote di segmento A che si sfidano nell’arrivare prime al prossimo semaforo rosso? Vogliono gli euroburocrati davvero ridurre al silenzio quel delizioso fragore provocato dall’esibizione di potenza delle utilitarie con appendici aerodinamiche posteriori e carburatori ritoccati (con o senza controllo poco importa)? Vogliono quegli incompetenti far calare il livello dell’adrenalina stradale italiana? No: deusnonvult, avrebbero esclamato in passato. Ahi, serva Europa, matrigna burocrazia, degna di essere relegata alle peggiori pene nei gironi danteschi. 



Proviamo però ad abbandonare il vaffa-pensiero per tornare in modalità “Franza o Spagna” e ragionare un attimo. 

Lasciamo stare che l’estinzione delle auto inquinanti farà bene allo smog e al clima e che saremo meno dipendenti dalle importazioni di petrolio. Lasciamo perdere che gli effetti dello stop alle auto a diesel e benzina entro il 2035 per diventare definitivo ha ancora bisogno del via libera da parte del Consiglio dell’Ue del prossimo 28 giugno e che presumibilmente in quella sede ci saranno aggiustamenti. Lasciamo correre che se ne impedirà la vendita alle case automobilistiche e che invece sul mercato nulla tratterrà gli appassionati ipoudenti dal riempirsi le trombe di Eustachio con chiassi di ogni genere e natura. Lasciamo andare che l’8 giugno in aula è passato l’emendamento salva-Ferrari per cui i piccoli produttori potranno continuare a vendere auto a diesel e benzina fino al 2036. 

Abbandoniamo tutto ciò sul lato, pardon, sul ciglio della strada (immagine quanto mai adeguata al tema), ma la sostanza e il valore del traguardo non cambiano. Veniamo dunque al sodo. E il sodo è: chi l’ha voluta questa norma e, soprattutto, quali conseguenze potrebbe avere, anzi avrà?

Anzitutto: la norma rientra tra quelle comprese nel Fit for 55, il pacchetto di dettami per realizzare gli obiettivi del Green Deal, dove c’è un po’ di tutto: dal principio più sacrosanto al cavillo ideologico.

Andiamo avanti: quanti tra noi hanno notato che ultimamente i modelli a benzina o diesel sul mercato sono sempre meno? Penso pochini, forse perché siamo troppo impegnati a vaffancheggiare il mondo per osservarlo da vicino. I costruttori hanno scelto, e da un bel pezzo, cosa fare: sono tutti, tutti, nessuno escluso, già proiettati verso l’elettrificazione. 

Le Case, a partire da quelle che più contano in Europa, cioè le tedesche, erano sicure che la rotta “politica” fosse tracciata e da tempo avevano annunciato un futuro solo elettrificato o elettrico. Audi dal 2026 realizzerà solo auto elettriche, cessando la produzione dei motori termici nel 2033. Poco cambia in casa Bmw che è impegnata fortemente sul fronte elettrico, pur senza smettere motori benzina, diesel, sei cilindri e otto cilindri di nuova generazione; Mercedes-Benz ha appena detto ciao per sempre al V8 biturbo. 

Sì, vabbè, ma i posti di lavoro? Quelli si perdono? Per forza. Secondo Federmeccanica entro il 2035 si potrebbero avere 73mila posti di lavoro in meno di cui 63mila scomparirebbero tra il 2025 e il 2030. 

C’è però un ma: e ogni volta davanti a questa discussione torna in mente una splendida mostra del Meeting riminese, quella in cui si elencavano una serie di lavori scomparsi nel corso dei decenni. Nostalgia per quel che era, ma anche spinta a guardare a quel che sarà. 

Principiamo allora dalle fondamenta e ci permettiamo di condividere con voi una considerazione filosofica degna di Monsieur de La Palice: i lavoratori sono quella gente che lavora per produrre dei beni (materiali o no, poco importa qui) che altri comperano. Non sono invece né quelli che vengono mantenuti da aziende benefattrici dell’umanità (come pare pensare tale Monsieur de Bonomi), né coloro (come crede Monsieur de Landini) che hanno diritto a un contratto di lavoro a prescindere dall’esistenza stessa del lavoro. 

Bene: concordiamo tutti che i lavoratori muoiono dove il mercato muore e invece vivono (e sperabilmente prosperano), dove il mercato vive e prospera? Allora il mercato ha già scelto: quei lavoratori non sono a rischio perché l’Europa impone una data, ma perché il mercato sta andando in una direzione diversa.

Pensate un po’: l’industria italiana è ormai stabilmente fuori dalla top 10 dei produttori globali di automobili. Il settore sta mutando e se nel 1999 erano circa 1,5 milioni i veicoli prodotti oggi sono poco più di 500mila le unità prodotte. In Italia invece creiamo soprattutto componenti, tant’è che la crisi della Bosch a Bari era già evidente e conclamata ben prima del voto europeo. 

Conclusione momentanea: di fronte al domani possiamo attaccarci al presente e sostenere che servono ancora gli addetti alla sveglia mattutina degli operai (com’era nell’Ottocento, quando gli orologi erano roba per straricchi), oppure prendere atto che il settore “sveglia mattutina” è, diciamo, maturo. Anziché snocciolare rosari di improperi, perché non chiedersi allora quali sono le competenze che andranno a spegnersi e quali sono invece quelle che andranno a crearsi? Perché non domandarsi se il domani sarà ancora di tute blu o se queste saranno sempre meno e invece ci serviranno più tecnici specializzati? E quindi desumerne (verbo che comprendo essere ignoto o poco noto, giacché esso presuppone una capacità logico-deduttiva incompatibile con il dogma del Vaffa), che dobbiamo investire negli Its invece che nei corsi universitari di comunicazione o nei Dams di tutt’Italia? 

Sì, ma servono delle politiche industriali, direbbe qualcuno: verissimo, ma queste chi deve farle se non chi è stato (ed è) al potere o ha il potere esecutivo? Francia, Gran Bretagna e Germania le hanno già predisposte: noi no. Colpa dell’Europa: boh! Di certo queste politiche industriali non sono state incluse nel Recovery plan.

Ma torniamo ai posti di lavoro: in Francia hanno calcolato che potrebbero saltare 75mila posti di lavoro a causa di questa transizione, ma hanno aggiunto (in fondo sono sempre il Paese di Blaise Pascal e del suo ésprit de géometrie) che se ne creeranno 500mila. Stime, ipotesi? Sì: sia l’una l’altra cifra sono stime. Così come è una stima quella dell’European association of automotive suppliers che in un suo documento ritiene che le tecnologie per le e-car potrebbero creare 226mila nuovi posti di lavoro in Europa entro il 2040. Piccolo particolare: la cosa riguarderà il settore dei software e quello delle infrastrutture per batterie.

Però, murmurant i più fighi del bigoncio (quelli che la sanno lunga perché hanno letto la Bibbia delle politiche internazionali, il Limes filoputiniano), così perderemo la leadership europea del mercato automobilistico in favore della Cina. 

A parte che oggi la leadership è giapponese (in Africa, per dirne una, le auto sono, per antonomasia, le Toyota), ma se vogliamo lottare per questa leadership occorre che i soggetti si mettano in moto (a proposito, perché nessuno dice che la norma vale anche per moto e bici? E che il settore era stato avvisato fin dal 2018?): oggi mancano le infrastrutture, dicono i rivenditori di auto. Vero, ma appunto parliamo di oggi, dell’immediato, dell’hic et nunc, non del 2035: siamo convinti, noi, abitanti del Paese noto nel mondo per la sua precisione e il suo rispetto delle date e delle norme, che senza un termine cronologico così preciso il settore avrebbe spontaneamente agito il cambiamento?

Proprio in questi giorni l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha comunicato che nel 2021 le vendite di auto elettriche in Europa sono aumentate di quasi il 70% rispetto all’anno precedente, con un picco nel mese di dicembre (tanto che per la prima volta le e-car hanno superato le auto a diesel). Nel 2021 sono state immatricolate 67.255 e-car a batteria (+107% rispetto al 2020) e 69.499 plug in hybrid (+153,75%). Il mercato però, si ribadisce, è ancora di nicchia e quindi è roba per ricchi, mica per noi comuni mortali che non possiamo/vogliamo spendere 40mila euro per un’auto che fa 300 chilometri con un pieno di elettricità. Pare di risentire le stesse parole con cui il settore automotive pensava al domani elettrico prima del Dieselgate (lo ricordate? Quello fu lo spartiacque: per sopravvivere i tedeschi furono costretti a tirar fuori dal cassetto i piani cui lavoravano ormai da decenni): le auto elettriche non si vendono perché mancano le colonnine, ma le colonnine mancano perché non ci sono auto elettriche. 

Al netto della logica istantanea, gli esperti ritengono che i veicoli elettrici potranno diventare più economici di quelli tradizionali nel giro di 6 anni purché aumentino la produzione e gli investimenti. Scommettiamo che tra un attimo, passato il periodo degli improperi, arriverà il momento della richiesta affinché il Governo metta in campo congrui incentivi per favorire la transizione?

Per intanto i rivenditori e tutto il comparto della post-vendita delle auto stanno registrando un’inusitata vivacità del settore dell’usato, compreso quello delle auto usate elettriche, di quelle ibride o di quelle con motore termico di ultimissima generazione.

E allora: davvero stiamo facendo un regalo alla Cina o invece, come tanti pensano, le stiamo rifilando una polpetta avvelenata? Agli statisti futuri (perché a gran parte dei politici attuali manco la domanda dovete porre), l’ardua sentenza.

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