Siamo ostaggio dell’altrui libertà. Lo dimostra il drammatico incidente accaduto nella mattinata di ieri a Berlino, quando una Renault Clio color argento ha attraversato la Kurfürstendamm di Charlottenburg mirando ad un angolo della strada affollato di gente. Alla guida un tedesco armeno di 29 anni, sulla strada – accasciata senza vita dopo il tragico urto – un’insegnante di 51 anni in gita scolastica con ventiquattro studenti. E poi numerosi feriti, tra cui una donna incinta.
L’autore del gesto portava in macchina alcuni volantini a sfondo politico, ma le autorità propendono per giudicare l’accaduto come l’esito di uno squilibrio mentale.
Eppure nessuna spiegazione riesce a curare lo sgomento e la percezione di incertezza che una tale vicenda lascia in bocca: non c’è un istante in cui possiamo dirci davvero al sicuro, in ogni momento la libertà dell’altro può compiere azioni improvvise, non prevedibili, dirompenti, azioni che possono incidere e cambiare per sempre la nostra vita.
È un’insicurezza cui non ci abituiamo mai, cresciuti nel mito delle certezze solide e incontrovertibili. Dimentichiamo che basta un’auto impazzita per cambiare ogni cosa, dimentichiamo che è l’instabilità e l’incertezza lo scenario in cui si svolge la normalità dell’esistenza. Per questo cerchiamo rifugio in parole, verità, relazioni e convinzioni che possano illuderci di essere al riparo dal marasma dell’esistenza. Tutti cercano di sottrarsi all’onda d’urto del reale, dimenticando che è in quell’urto che cresce la nostra consapevolezza e matura l’autocoscienza: noi abbiamo bisogno della realtà, ma dalla realtà fuggiamo, scappiamo, ci nascondiamo.
L’Occidente, preso dalla pandemia e dalla guerra, ha dimenticato la violenza del terrorismo, si è illuso di poter affrontare un capitolo della storia alla volta, come se la complessità fosse un gioco psicologico e non un dato drammatico di questo secolo. Ma basta un nonnulla, una macchina in centro a Berlino, e tutti gli incubi si risvegliano; emerge una vertigine che spaventa chi non sa dove tenere i piedi, chi non ha un luogo che può chiamare casa, centro non degli affetti ma di una paternità vissuta.
Non appena i giornali hanno capito che non c’era alcun attentato, ma solo la follia di un poveretto, hanno tutti scalato la notizia in coda, come se la donna morta fosse secondaria, come se in fondo ci si fosse arresi all’assurdità di una morte senza senso. Siamo esseri precari, moriamo per le strade di Berlino in attesa di vivere. E quel che impressiona è che pensiamo che si possa vivere tranquilli, senza mai fare i conti con la vita che ci incalza. E che, in fondo, ci chiede di chi siamo.
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