Compie oggi sessant’anni un film del quale è doveroso ricordarsi sempre, perché contiene tutto quanto l’arte cinematografica può fare e anche più, almeno considerando quello che essa è stata per almeno cent’anni, da David W. Griffith all’inizio del post-contemporaneo, coincidente con l’ultimo ventennio circa, nel quale l’immagine filmica si è via via con-fusa con quella imperante e indistinta del mondo digitale, la cui ratio capiremo – forse – solo tra trent’anni. Parliamo ovviamente di Federico Fellini 8 ½, che intere generazioni di spettatori ha fatto innamorare di quella lanterna, magica fabbrica di visioni oniriche e mirabolanti avventure che si chiama Cinema.



Girato tra il maggio e l’ottobre del 1962 a Viterbo, Tivoli, Ostia e Fiumicino per le scene in esterno, e negli stabilimenti della Titanus per gli interni, 8 ½ appare al primo impatto come una magnifica visione, un originale e affascinante (e autobiografico) “castello in aria”. Fare castelli in aria è la mia occupazione preferita, diceva di sé Orson Welles: Fellini pare in questo caso aver preso l’illustre collega alla lettera. La scintilla di partenza è diretta conseguenza del caos avvenuto nella vita del regista dopo il planetario inatteso successo de La Dolce Vita (1960), e le epocali aspettative che di conseguenza si erano create attorno al suo lavoro. Un uomo e un artista sulla soglia di una crisi: come raccontare la sua – presunta – mancanza di ispirazione? “Non ho proprio niente da dire… ma lo voglio dire lo stesso”, afferma Guido (Mastroianni), il regista nel film, qui più che mai l’alter ego del regista del film.



Poi, nella stesura del soggetto e della sceneggiatura (stringata, poco più che un canovaccio), sviluppati con i consueti collaboratori Pinelli e Flaiano, l’idea azzeccata, che diverrà paradigmatica, è quella di mettere tutte le angosce, i sogni, le memorie, gli incontri del protagonista-regista in una struttura narrativa che si basa sul making di un film, che poi si rivela essere 8 ½ medesimo.

Allora la stazione termale alla moda in cui si snoda la vicenda diviene metafora del cervello del regista in crisi, del suo inconscio, del luogo dello sperato riposo temporaneo della sua anima (“asa nisi masa”, questo il pensiero di Guido rivelato dalla medium). Luogo reale dove Guido incontra un campionario di personaggi-persone dei quali il regista nel film, esattamente come quello del film, nonostante tutto non può fare a meno: la moglie, l’amante, il produttore, l’attrice francese col suo agente, il direttore di produzione, il critico, l’amico con la giovane amante che lui scambia per la figlia, Claudia la donna della fonte, l’ispirazione. E che, senza soluzione di continuità, senza preavvisi sintattici per lo spettatore, si trasforma magicamente nei luoghi della memoria (l’incontro con i genitori defunti, la spiaggia della Saraghina, la scuola, il cascinale di campagna) e della fantasia (l’harem, l’impiccagione del critico). Luogo che poi, non a caso, coincide con il set del film da realizzare.



Il quale si compone allora di una serie di episodi, sia onirici che realistici, simbolici come nostalgici, legati da una sottile linea narrativa, rintracciabile nel racconto di un regista in attesa dell’ispirazione giusta per completare il suo film. Episodi all’apparenza gratuiti, che invece costituiscono il vero e quasi unico contenuto del film.

In definitiva la questione è capire perché un’avventura così personale, poiché 8 ½ ha il valore di un’autobiografia in bilico tra l’immaginario e il realistico, raggiunga una delle vette più alte del cinema mondiale d’ognitempo. In 8 ½ anche frasi (visive) sparse, apparentemente slegate e fini a se stesse, prendono invece corpo e divengono frasi di un discorso filmico/cinematografico di valore stilistico e tecnico assoluti, di grande e compiuto significato paradigmatico, che avvicinano con leggerezza e senza stereotipi temi epocali e profondi come l’arte, la memoria, la fedeltà a un ideale come a una persona. In 8 ½ anche l’episodio più banale, la battuta più slegata diventano Cinema poiché filmate da un maestro, ecco il segreto. 

Da notare anche l’eleganza della fotografia, un bianco e nero molto contrastato e luminoso, che non ci stancheremmo mai di guardare (in definitiva, il Cinema è una cosa che si guarda… e basta!).

Non va dimenticata infine la marcetta che Nino Rota ha composto per il film, che Guido fischietta in più momenti, la quale è quindi presente nel tessuto di 8 ½ sia come musica diegetica che extradiegetica (di commento). Altro elemento che contribuisce a creare quel gioco meta-cinematografico di vero/falso che permea tutto il film.

Considerato da molti osservatori lo zenit della carriera del regista riminese, 8 ½ vinse numerosi premi, tra cui due Oscar nell’edizione del 1964: miglior film in lingua straniera e migliori costumi. Riconoscimenti più che meritati, che gratificano un film testimone fedele e fedifrago, al tempo stesso, dell’esperienza di un regista che come pochissimi altri ha saputo fare della propria vita un’opera d’arte.

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