Più passano le settimane, più i dati macroeconomici sia in Europa che negli Stati Uniti segnalano la persistenza dell’inflazione e una possibile seconda ondata di rialzo dei prezzi. Ieri è stato il turno dell’indice dei prezzi “PCE” che è il dato a cui guarda la Federal Reserve per misurare l’inflazione e poi prendere decisioni di politica monetaria.
Il dato non solo è uscito oltre le aspettative (5,4% contro attese di 5,0%), ma ha segnalato dopo qualche mese di cali un nuovo rialzo. Anche l’inflazione “core” europea a gennaio ha mostrato nuovi massimi. Significa che l’inflazione non è transitoria e non è in riduzione nonostante i rialzi dei tassi delle banche centrali degli ultimi mesi. I salari stanno crescendo; sia negli Stati Uniti che in diversi Stati europei si osservano incrementi salariali in interi settori spesso come conseguenza di contrattazioni sindacali. La componente dei servizi dell’inflazione continua a essere forte. Il mercato del lavoro rimane in un condizione di poca offerta probabilmente anche come conseguenza del numero eccezionale di uscite del 2020-2021.
Sia i mercati azionari che europei che quelli americani ieri hanno virato in negativo. Più ci si accorge che l’inflazione non scende, più difficile per le banche centrali sarà fermare il rialzo dei tassi. Il mercato si sta lentamente arrendendo all’evidenza e comincia a incorporare livelli di tassi terminali più alti di quello che si pensava anche solo a dicembre. Tassi più alti comportano tensioni nei settori più sensibili, in primis quello immobiliare, e vengono subiti più che proporzionalmente dalle fasce di popolazione più vulnerabili.
Nello scenario attuale si dice che gli incrementi salariali consentano di ovviare agli aumenti dei prezzi. Questo vale “in media”, ma nella realtà le fasce più deboli, i lavoratori meno qualificati subiscono l’inflazione e il rialzo dei tassi senza riuscire a migliorare il proprio reddito. Oltre allo stress finanziario che si portano dietro tassi più alti, c’è uno stress sociale che arriva da un contesto di prezzi in salita e costo del debito più alto. Più a lungo dura questa dinamica, più l’impatto sociale diventa difficile da governare.
La soluzione a questo problema sta nella difesa e nello sviluppo della produzione industriale che ha come primo e più importante fattore la disponibilità di energia economica e abbondante. Nel medio periodo questo comporta una riduzione dei prezzi, con l’incremento della produzione, e una dinamica dei salari positiva. Ieri la più grande società della chimica al mondo, la tedesca BASF, ha annunciato 2.600 licenziamenti in Europa a causa degli alti costi energetici. L’amministratore delegato ha dichiarato che “la competitività dell’Europa soffre sempre di più per eccesso di regole, processi autorizzativi lenti e burocratici e, in particolare, per gli alti costi della maggior parte dei fattori di produzione”.
Le decisioni di investimento o disinvestimento delle imprese sono meditate a lungo, ma difficilmente reversibili. L’ultima novità europea è l’avventura dell’auto elettrica di massa senza avere le materie prime e sostituendo motori termici di ultima generazione altamente efficienti e puliti, pensiamo ai biocarburanti, con batterie strutturalmente scarse e irriciclabili; la produzione di batterie è un settore dove l’Europa non ha vantaggi competitivi. Queste sono le ricette “perfette” per far durare l’inflazione cattiva in un mondo di tassi più alti.
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