Possiamo prendercela con il falco Vladis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione Ue, perché da una parte conferma che il Mes non ha condizioni “come voleva l’Italia” e dall’altra avverte che le regole di bilancio torneranno, dunque l’Italia dovrà ridurre, e prima di quanto si creda, deficit e debito. Possiamo irritarci contro lo sparviero Mark Rutte il quale sostiene che l’Italia deve farcela da sola, basta che destini parte del risparmio privato a ridurre il debito pubblico; del resto è più ricca dell’Olanda mettendo insieme patrimoni, impieghi finanziari e basso indebitamento di famiglie e imprese. Una bella patrimoniale et voilà il gioco è fatto. Ma recriminazioni, lamentele, pugni sul tavolo, nulla di tutto questo serve a spiegare come mai l’Italia è l’unico Paese a non aver consegnato il Programma nazionale di riforme per il quale la scadenza naturale era il 30 aprile.
Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri sostiene che a settembre presenterà il suo ampio programma: più tempo passa, più assomiglia ai piani quinquennali sovietici, pieni di stratosferici obiettivi che puntualmente venivano mancati. Non si tratta di incuria, disattenzione, incapacità o pregiudizio ideologico, il problema è che il Governo italiano è diviso sul che fare. Non è d’accordo sulle priorità, nemmeno sui titoli, figuriamoci sui contenuti. Ogni volta noi ricordiamo la triade malefica Autostrade, Ilva, Alitalia, possiamo aggiungere anche un altro tormentone, come la rete internet e poi il 5G contro il quale si sono schierato 500 comuni di ogni colore politico. Sono dossier precisi e tutti di portata strategica sui quali il Governo non riesce a decidere.
Di fronte a questa paralisi progettuale continua a prevalere l’emergenza: cassa integrazione, bonus, sostegni monetari, tutto quello che doveva essere concluso con le prime due fasi della politica anti-crisi, lasciando alla terza fase il rilancio, la ripresa, la crescita. Questa terza fase non è cominciata e c’è il forte sospetto che di questo passo non comincerà. Spostare tutto a settembre equivale a non fare nulla quest’anno, tanto più se a settembre con le elezioni regionali si chiuderà anche l’esperienza del Conte bis. Sempre ammesso che un colpo di coda della pandemia insieme all’acuirsi della recessione non faccia precipitare la situazione. Non è da augurarselo, ma il principio di precauzione che il Covid-19 ha riportato in auge consiglia di prevedere che si consideri lo scenario peggiore.
L’emergenza prevale anche nella gestione del debito pubblico. Prendiamo la emissione del Btp Futura a dieci anni, destinato a finanziare le misure anti Covid-19 e rivolto ai singoli risparmiatori che vogliano accedere direttamente al mercato senza passare per fondi e banche, una quota oggi davvero minuscola, appena il 4% del totale. Il Governo spera di aumentarla puntando sul premio fedeltà fino al 3% basato sulla promessa che entro tre anni dal 2021 torni la crescita, con l’obiettivo di un 3% annuo in termini nominali. I tassi cedolari minimi garantiti sono dell’1,15% nei primi quattro anni poi cresceranno fino all’1,45%. Non molto se non ci fosse quel premio che, però, è una scommessa vera e propria contro la filosofia dei piccoli risparmiatori che vogliono certezza e stabilità. Lo specchietto per le allodole sarà proprio l’anno prossimo quando si prevede un rimbalzo del 6% almeno in termini nominali, tuttavia ci vuole un bel po’ di ottimismo per pensare che verrà tenuta una media del 3%.
Domani vedremo come andrà e per carità di patria facciamo il tifo affinché il collocamento riesca, tuttavia si conferma il circolo vizioso che intrappola la politica economica e il Paese intero: da una parte occorre che il risparmio privato (ingente nonostante la crisi) venga incanalato verso il finanziamento degli investimenti produttivi, in modo da portare la crescita al 3%, dall’altra una quota crescente di risparmio viene risucchiata dal Governo per finanziare un debito pubblico che aumenta non per sostenere gli investimenti produttivi, ma la spesa assistenziale. Si dirà che il dilemma è strutturale ed è stato aggravato dalla pandemia; è vero, tuttavia le scelte finora compiute non sono tali da allentare la tagliola che blocca la crescita.
Spetta all’Italia tagliare il nodo, non all’Unione europea o alla Bce. Quel che Bruxelles può fare è creare le condizioni più favorevoli, offrire carote senza brandire continuamente il bastone, lasciare che la banca centrale faccia da prestatore di ultima istanza. La sconfitta degli ortodossi e dei sovranisti grazie alla scelta di Angela Merkel contro la sentenza dell’Alta corte tedesca e a favore di un massiccio intervento gioca perché le condizioni favorevoli durino nel tempo.
La finestra che prima era chiusa ora è stata aperta, non possono non ammetterlo persino gli euroscettici, i loro sospetti d’altra parte si sono spostati sul futuro. Falchi e sparvieri continueranno a volare, ma alti su nel cielo. Il realismo spinge verso un ricorso al meccanismo salva-Stati, nelle condizioni attuali. In ogni caso, anche volendo puntare solo sul fondo per la ripresa, c’è bisogno di mettere a punto un programma chiaro in tempi rapidissimi. Attraverso quella finestra aperta l’Italia può far passare scelte coraggiose, riformatrici e sviluppiste; però deve sbrigarsi, settembre è lontano e allora potrà essere troppo tardi.