L’Osservatorio Nazionale Adolescenza Onlus racconta che in Italia circa il 18% dei giovani tra i 14 e i 19 anni intenta pratiche di autolesionismo. I dati raccontano che il fenomeno è precoce perché già il 20 dei ragazzi tra i 12 e i 14 anni lo pongono in essere. Solitamente chiuse le scuole e iniziate le vacanze la questione educativa va in soffitta, quasi fosse un tema di stagione come il caldo d’estate o il maltempo in autunno. Eppure le domande dei ragazzi non vanno in vacanza: nella fattispecie il fenomeno dell’autolesionismo è molto complesso e generalizzare è quanto meno rischioso.



Tuttavia ci sono due elementi che certamente sottolineano almeno un aspetto del problema: il primo elemento è il giudizio. Sembrerà strano sentirlo dire agli adulti, ma uno dei giudizi di fondo più ricorrenti nella vita di un adolescente è l’insicurezza relativa al fatto di meritare di vivere. Io non valgo, io faccio schifo, io non sono più all’altezza dell’affetto degli altri, sono uno sbaglio e devo essere punito. È incredibile come l’età della prima giovinezza sia molte volte attraversata dal bisogno di trasformare il proprio pregiudizio in gesto, la propria opinione su di sé in realtà. Il dolore auto-inflitto è considerato inconsciamente da molti come la giusta condanna per la verità che tutti sanno e che nessuno ammette: siamo una delusione, siamo un errore di natura, siamo una cocente sconfitta che non avrà nessuna possibilità di realizzarsi e di essere felice. I voti a scuola lo dimostrano, le chat degli amici lo dimostrano, i commentini che mi fanno lo dimostrano, il modo con cui papà e mamma si trattano fra di loro lo dimostrano, i tipi o le tipe con cui sto o con cui non riesco a stare lo dimostrano… è tutto inutile: io non ho diritto di vivere.



C’è poi un altro pensiero, forse più inquietante, che emerge in alcuni casi di autolesionismo: io, ragazza (soprattutto) o ragazzo, ho un gran bisogno di essere toccato da qualcuno, di qualcosa che toccandomi mi restituisca la percezione anche corporea e fisica del mio esserci, del vivere dentro ad un confine che è il mio posto, il mio luogo, la mia casa. Insicurezza del bene, assenza di contatti, bisogno di casa: come può essere questa la cifra dei ragazzi dei nostri giorni così al centro delle nostre attenzioni e così guardati dai genitori?

Il punto è proprio qui: in questa abbondanza di sguardi e di conferme, dove comincia lo spazio del rischio, il tempo della mia libertà? Che speranza ho (sì, speranza!) di poter soffrire? Q uando la vita potrà cominciare sul serio ad essere mia, nel senso proprio di “conquista personale” delle certezze del vivere? È proprio la mancanza di dolore a generarne la necessità, è proprio il non esserci del rischio a richiamare una vita rischiosa. Tis de bios ater patros, si domanda il poeta greco Mimnermo: che vita è senza un padre? Che nostalgia del padre della parabola del Figliol Prodigo: un genitore che non teme di rischiare tutto perché il figlio abbia uno spazio di vera libertà, un genitore che non s’impiccia della vita del figlio, che non vive i problemi del figlio come un proprio problema. Un genitore che guarda da lontano. E, semplicemente ma drammaticamente, aspetta. Che la gioia e il dolore, che l’esperienza stessa, impartiscano i loro insegnamenti a coloro che devono diventare grandi. Prima che cerchino il dolore da soli, prima che pensino che la vita sia stata un caso, una coincidenza, qualcosa di ricorrente come la canicola dell’estate. Destinata a passare, fino al prossimo inverno.