Ha dato l’allarme nei giorni scorsi Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’ospedale Bambino Gesù: aumentano i tentati suicidi e gli atti di autolesionismo fra i giovani e i giovanissimi. Un aumento aggravato particolarmente dall’isolamento forzato e di conseguenza dall’assenza di un assiduo confronto coi propri coetanei, con gli insegnanti, dalla rarefazione delle occasioni sociali. “Sappiamo dai dati di letteratura – ha detto il professor Vicari – che il lockdown, la chiusura totale e la chiusura delle scuole ha determinato un aumento degli stati d’ansia e depressione nei ragazzi”. “Nel 2011 i ricoveri sono stati 12, nell’anno appena concluso abbiamo superato quota 300”, ha aggiunto, riferendosi alla situazione osservata nel suo ospedale: “Mai come in questi mesi, da novembre a oggi, abbiamo avuto il reparto occupato al 100 per cento dei posti disponibili”. E ha lanciato un appello: “Se cominciassimo a parlarne come parliamo delle altre malattie, saremmo già un passo avanti. Chiedo che venga posta la massima attenzione su un fenomeno ad oggi completamente ignorato”. In questa intervista, accogliendo l’appello del collega, lo psicoanalista Fulvio Tagliagambe ci aiuta a gettare luce su un fenomeno in crescita e ancora non sufficientemente dibattuto, allargando lo sguardo dalla prospettiva generazionale a quella, più ampia, di un’intera società e dei suoi disagi, in un’epoca dominata dalla vergogna e dallo squilibrio fra senso di sé e bisogno di relazione. Un disequilibrio che mette a rischio la salute mentale dei genitori ancor prima di quella dei ragazzi.



Professore, lei ha modo di constatare nella sua esperienza una maggiore incidenza del fenomeno su cui ha già posto l’attenzione il professor Vicari?

La pandemia ha creato una situazione ad alta densità emotiva che ha portato alla luce con maggiore evidenza aspetti come quelli descritti dal professor Vicari, che dal suo punto di osservazione, lavorando in un ospedale, ha una casistica più ampia rispetto a quella che posso avere io come psicoanalista. Mi occupo di questi temi anche al Cart di Milano, dove in particolare abbiamo a che fare coi problemi del narcisismo, della dipendenza, delle depressioni giovanili, e anche qui notiamo una risonanza del fenomeno. A mio avviso occorre leggere la questione dal punto di vista medico, ma anche psichico e ambientale. Credo sia importante integrare i diversi vertici di osservazione per un problema che merita assoluta attenzione.



E qual è una possibile chiave?

Ci stiamo riferendo a una parte dei giovani, quelli che sono tendenzialmente più fragili, e guardando alla parte più fragile di questa generazione di giovani io credo si tratti di una questione complessa: è come quando crolla il ponte Morandi, bisogna costruire un altro ponte per passare. Se c’è un assetto fragile, significa che qualcosa, nella costituzione del senso di sé non è andato a buon fine. Questi ragazzi vagano alla ricerca di un’identificazione, un riconoscimento che permetta loro di sentirsi di esistere. Il ponte da costruire è quello di una relazione che permetta loro di dare senso e motivazione alla loro esistenza, preservandoli dagli agiti autolesivi in cui, altrimenti, può manifestarsi il loro disagio. Le componenti di debolezza sono di carattere biologico, ma anche psichico, intra-psichico, inter-psichico e ambientali. L’aspetto di fragilità espone chi è in questa situazione a vivere la pandemia con meno risorse per poterla gestire. Il fatto di stare chiusi all’interno di un ambiente domestico, dove spesso questa fragilità è nata, non aiuta, perché evidentemente qualcosa non è andato nel verso giusto rispetto alla costruzione del senso di sé. Il ponte è già crollato, e un rapporto con la famiglia può non essere tale da creare una condizione di sostegno.



I genitori non sempre sono le persone giuste, in questi casi, per aiutare i figli?

Su una cosa non sono d’accordo rispetto a quello che ha detto il professor Vicari: sul fatto che il disturbo mentale dei figli sia qualcosa che fa sentire i genitori colpevoli. Non sempre è così. Quello che posso notare nei genitori quando sono posti di fronte a tendenze autolesive dei ragazzi non è la colpa, è, più spesso, la vergogna. E credo che questo sia un male della nostra epoca. Una condizione che certo non aiuta a una comprensione profonda del malessere dei propri figli.

Cioè?

Il senso di colpa contiene principi vitali relazionali. Nel senso di colpa c’è già un impulso costruttivo rispetto alla vergogna. Se io rovino qualcosa, il senso di colpa mi spinge a riparare quello che ho danneggiato. È una posizione che contiene l’altro e il rispetto per la relazione. Il senso di vergogna invece contiene in qualche modo un’ipocrisia, una tendenza a dissimulare – proprio nel senso greco di ύπο-κρισιη. La vergogna è una modalità che, anziché intervenire su un piano di ricostituzione di una ripresa dello sviluppo, porta a chiudere, tener nascosto, a separare, isolare.

Perché la vergogna ha sostituito il senso di colpa?

Nella nostra epoca assistiamo al tramonto del senso di colpa e al prevalere del paradigma del senso di inadeguatezza e di vergogna. Da questo nascono i disturbi del narcisismo, della relazione, della dipendenza patologica, intesa anche come dipendenza tossica, dell’aggrapparsi all’altro in modo passivo, senza emancipazione, della costituzione di una situazione simbiotica che penalizza l’equilibrio di una persona, come anche di contro-dipendenza e negazione dell’altro. Sono le forme di disagio oggi molto frequenti in una società dove l’aspetto più inaccettabile è non apparire, dove non importa se metto in rete il filmato che mi riprende mentre con i miei compari picchio un indifeso. Non c’è nessun senso di colpa, ma la risposta alla vergogna di non apparire e quindi di non essere.

In cosa consiste questo equilibrio?

Nel bilanciare il bisogno di appartenenza e il bisogno di individuazione. Esserci significa esserci come individuo ma anche “essere-con”, non possiamo trascurare nessuno dei due aspetti di un unico bisogno.

E lo sbilanciamento su quale dei due lati ha portato al prevalere del paradigma della vergogna?

Dipende dalle singole personalità, credo però che la conseguenza più grave di questo disequilibrio sia che i genitori tendono a banalizzare la circostanza in cui il ragazzo manifesta disagio. Il fatto di tagliarsi o compiere atti autolesivi è un vero e proprio linguaggio che sostituisce quello ordinario, linguistico. Se il genitore vive questa condizione come vergogna, come qualcosa da tenere nascosto, tenderà a sottovalutarlo, a banalizzarlo, a non cogliere il messaggio che quel linguaggio sta cercando di esprimere.

È possibile che questa volontà di nascondere nasca nei genitori stessi da una repressione del naturale senso di colpa?

Assolutamente. Io mi occupo molto di genitori che hanno a che fare con figli che hanno disturbi, da quelli di tipo fisico e mentale alle tossicodipendenze, e ciò che riscontro maggiormente è l’isolamento dei genitori stessi, il tener nascosto, la difficoltà a condividere il problema con altri.

Come si possono aiutare genitori e ragazzi?

La cura che prediligo è il lavoro di gruppo. Vedo che i genitori nel momento in cui si trovano in un ambiente protetto, in cui si possono confrontare con dei pari che sono in situazioni analoghe alla loro, si sentono più liberi di esprimersi. Il fatto di potersi esprimere crea legami forti, ci si sente appoggiati da un gruppo che permette loro di non sentirsi lontani dagli altri e di trovare insieme soluzioni possibili ai problemi. È questo che sblocca, crea una situazione di sviluppo e di apertura che è proprio ciò che io cerco di sollecitare.

Il problema assume un carattere più ampio: non è più un tratto generazionale ma un tratto della nostra epoca?

Credo proprio che sia così. Sento tanti pazienti che vogliono tornare alla normalità del pre-Covid, ma io non credo che sarà mai possibile: la salute non è tornare a una condizione precedente la malattia. La normalità si deve basare su nuove norme in grado di accogliere e integrare l’esperienza del disagio sociale e della malattia, che oltretutto riguarda tutta l’umanità, perché la pandemia è mondiale. Non possiamo pensare semplicisticamente di tornare alla normalità, cioè alle normative antecedenti la pandemia. Dobbiamo creare nuovi valori che comprendano quello che sta succedendo e che facciano leva, in particolare, sul rispetto dell’ambiente e sull’importanza della qualità delle relazioni, della condivisione e dello scambio. Questo richiede una revisione dei valori antecedenti.

L’intersoggettività è la soluzione?

L’essere umano senza gli altri non esisterebbe, nasciamo da due persone che nascono da altre quattro persone, e via dicendo. Il neonato oggi nasce con una capacità di utilizzazione dei device che le generazioni precedenti non avevano, ogni essere vivente che nasce porta con sé la storia dell’intera umanità. Non potremmo raccontare nulla di noi senza raccontare gli altri, l’essere umano ha iscritto nel proprio sistema biologico la necessità di relazione con gli altri, e anche sul piano psichico quello che siamo è il frutto di appartenenza a gruppi sempre più allargati, dal grembo materno alla famiglia, ai vari gruppi attraverso i quali una persona alimenta la propria individualità. Nel proprio sé l’essere umano ha già dentro l’altro, il senso di sé si costruisce nell’intreccio della propria individualità con quella degli altri.

Ma anche la libertà di emanciparsi dalla situazione in cui si nasce è importante.

È un aspetto fondamentale, abbiamo bisogno di valori di appartenenza e valori di individuazione, ci emancipiamo progressivamente dalle appartenenze per conquistare appartenenze più evolute. È così che si costituisce la libera soggettività che ci permette di essere consapevoli dei condizionamenti sociali, dell’induzione sociale che limita la nostra vitalità.

Quanto il nostro modo di vita attuale incentiva questa vitalità?

Viviamo in un’epoca in cui questi valori sono stati indeboliti da un sistema che non favorisce l’evoluzione delle persone ma tende a comprimerla. Basti pensare all’importanza che ha assunto il lavoro nella nostra epoca, è diventato fagocitante, non ci sono più confini tra i momenti del lavoro e i momenti del non lavoro. Quello in cui viviamo diventa un sistema da cui bisogna sapersi difendere, bisogna saper creare anticorpi, che non devono andare contro il lavoro e i valori di cui è portatore, ma preservare la nostra libertà di avere tempo ed energie per coltivare i valori dell’amicizia, dell’amore della solidarietà, della cultura.

Cosa si può fare in prima persona per stare vicini a ragazzi e famiglie con problemi come quelli di cui abbiamo parlato?

Far sentire l’affetto, la fiducia, la vicinanza, far sentire che c’è la possibilità di credere che le cose possano svilupparsi in modo positivo parlandone, superando la barriera dell’isolamento e della vergogna e confrontandoci. Dare la nostra disponibilità, come persone, all’ascolto affettivo, relazionale. A questi ragazzi manca il gruppo dei loro pari, l’isolamento poi li porta a stare al chiuso e a connettersi via internet. Occorre recuperare il confronto allargato, non il gruppo come realtà ristretta, come “setta” (una situazione che può diventare patologica), ma il gruppo come quelli che si formano naturalmente tra i ragazzi e che permettono loro di aprirsi e intravedere nuove possibilità, nuove soluzioni. Questo è un problema che la pandemia ha reso molto più evidente.

(Emanuela Giacca)

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