L’attuale processo di definizione di un contesto di maggiore autonomia per le tre Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia configura una specie di “terza tappa” di un cammino iniziato nel 1946 e che ebbe come prima tappa l’istituzione nel 1948 delle cinque Regioni a Statuto speciale -Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia (in questo caso è servito qualche anno in più) – e come seconda tappa, giunta oltre vent’anni dopo (nel 1970), la legge istitutiva delle odierne 15 Regioni a Statuto ordinario. Ma già con i due referendum del 2017 di Lombardia e Veneto, seguiti dalle iniziative politiche del 2018 con in testa l’Emilia-Romagna, e del corrente anno 2019 (dunque dopo quasi mezzo secolo di quiete) stiamo assistendo alla terza tappa del percorso, ovvero al possibile completamento di una riforma del nostro ordinamento “federalistico” che supererebbe in modo nuovamente differenziato l’assetto regionale omogeneo (tra le 15 ) quale era emerso dalla riforma del 1970.
La riforma proposta, alla cui redazione lo scrivente ha avuto l’onore di contribuire per una delle tre Regioni, conferirebbe a queste ultime l’utilizzazione pratica del comma III dell’art. 116 della Costituzione grazie a “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”; ma certo non consegna loro quella autonomia speciale che le “cinque” privilegiate ebbero nella Costituzione del 1948. Da economista lo scrivente ritiene che l’idea di “sfruttare” il detto comma III – idea che è maturata nelle Regioni settentrionali pur di diverso colore politico negli anni 2013-2016 – per valorizzare la propria virtuosità amministrativa rispetto alla macchina centrale non sia stata affatto peregrina. La richiesta formale delle tre Regioni appariva però incompatibile con il contesto politico generale e istituzionale di quegli anni, che mise in atto il noto tentativo di “riaccentramento” del sistema delle autonomie , in palese contrasto con il percorso compiuto nei precedenti venti anni e con quel tanto conclamato principio di sussidiarietà che era alla base della riforma “federalistica” italiana post 2001.
Un tale rischio di riaccentramento (un fenomeno che aveva sfiorato pochi anni prima la stessa Germania, vedi recenti contributi della grande studiosa Gisela Faerber!) era riconducibile all’incerta attuazione del Titolo V e in particolare delle disposizioni concernenti l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa di Regioni ed Enti locali.
La giustificazione teorica di tale desiderata espansione di competenze e poteri consiste sostanzialmente in un “premio alla virtuosità”, stante che l’attribuzione di spazi di manovra a Enti efficienti genera un livello e una composizione della spesa pubblica più vantaggiosa per i cittadini e le imprese. Nel caso specifico previsto dall’art. 116, le tre Regioni leader danno evidentemente per scontato che l’efficienza e l’efficacia della loro azione regionale nelle materie oggetto della richiesta di autonomia sarebbero superiori a quelle esercitate dallo Stato e che pertanto aumenterebbero l’accountability degli amministratori pubblici del Nord-Est. E in effetti, secondo fonti attendibili, le tre Regioni risultavano , nel 2016, più virtuose delle altre in termini di performance amministrativa (rapporto spesa/servizi, soddisfazione della domanda, in specie nell’ambito sanitario, ecc.).
Appare pertanto sorprendente che le loro non brillanti performances non impediscano oggi a Regioni sotto media – vedi per prima la Campania – di aspirare alla stessa maggiore autonomia delle tre Regioni leader (del resto, sia detto per inciso, che cosa impedisce all’inefficiente Sicilia di mantenere lo status di Regione speciale?); mentre giustificate apparirebbero richieste provenienti da Liguria, Piemonte, Marche, Regioni tutte sopra l’indice medio di virtuosità.
La questione delle risorse (autonome, non autonome, ecc.) sembrerebbe accantonata dietro lo slogan “nulla più di quanto spende lo Stato” (ribadito insistentemente dal Presidente dell’Emilia-Romagna): la “saggezza diplomatica” ha suggerito alle tre Regioni leader di non chiedere spazi finanziari superiori a quelli coincidenti con la spesa storica statale relativa a quelle competenze oggi esercitate dallo Stato o condivise (23 quelle chieste da Lombardia e Veneto, 15 quelle chieste dall’Emilia-Romagna). In realtà la questione delle risorse è dietro l’angolo e sta tutta nell’art. 5 delle “Intese” Stato-Regioni del febbraio scorso. Innanzitutto, ci si impegna ad adottare per il futuro il criterio dei fabbisogni standard, ma un’apposita clausola di salvaguardia dice che, dopo tre anni, l’assegnazione di risorse non può essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale.
Il guaio è che tale spesa media è, a livello nazionale, da un minimo di 70 e fino a 190 euro più elevata di quella vigente nelle tre Regioni per quanto riguarda il complesso delle funzioni, e di un 10-90 euro per le funzioni senza istruzione, per un totale di 2,7 miliardi di euro se si include l’istruzione e di 1,3 miliardi se la si esclude: ma dove e come reperirli? L’unica soluzione compatibile con l’impegno “neanche un euro in più” sarebbe di prelevarli dai trasferimenti statali alle altre Regioni, che quindi dovrebbero adattarsi alla media nazionale.
L’esclusione dall’autonomia differenziata dell’istruzione si è concretizzata nei giorni scorsi, ma ha incontrato un netto rifiuto da parte di due delle tre Regioni, e questo rende a oggi ancora molto incerto l’esito finale dell’infinita trattativa. Verrebbe a mancare, infatti, un buon 70% del pacchetto, e cioè 11,4 miliardi sui 16,2 totali stimati dalla Ragioneria.
Ove le Regioni si ricredessero e accettassero il compromesso al ribasso il commento più appropriato sarebbe: Parturient montes, nascetur minusculus mus…