Nelle scarse iniziative politiche estive emergono, da un lato, la raccolta delle firme ad opera del “campo largo” per l’abrogazione totale della legge n. 86/2024 per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, e, dall’altro, l’impugnazione della stessa legge da parte della Regione Puglia, con il governatore Emiliano che tuona sulla menomazione delle competenze regionali da parte delle disposizioni che dovrebbero concedere maggiori poteri su 23 materie proprio alle Regioni.



La legge Calderoli, in sé, è stata una grande concessione del centrodestra al centrosinistra, perché di una legge necessaria a regolare la procedura dell’art. 116, comma 3, Cost., non vi è traccia nella Carta. L’idea di una legge di disciplina di una disposizione costituzionale di per sé attuabile fu di Francesco Boccia, ministro per gli Affari regionali nel governo giallo-rosso di Conte. Ed è noto che la trovata era funzionale a bloccare la spinta all’autonomia che nasceva dai referendum del Veneto e della Lombardia, cui si era aggregata, in altro modo, l’Emilia-Romagna con l’allora presidente Bonaccini, che ora tuona anche lui contro la legge “spacca Italia”.



Così come una pura invenzione di Boccia era stata la necessità di legare l’autonomia differenziata alla determinazione dei “Livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, comma 2, lett. m, Cost.). Infatti, si è data una distorta spiegazione del significato di questa disposizione, rispetto all’autonomia in generale e a quella differenziata in particolare, della quale, però il ministro Calderoli si è fatto carico, pur di trovare un momento di non frizione con l’opposizione. A tal fine, è stato creato un Comitato ad hoc con una pletora di costituzionalisti di tutte le tendenze, assegnandone la presidenza a Sabino Cassese.



Un lavoro enorme è stato compiuto, della cui utilità, però, è lecito dubitare, sia per la scarsa inerenza al tema dell’autonomia differenziata, avendo semmai un rilievo ai fini di un riordino generale delle amministrazioni (statale, regionali e locali), e sia perché è servito solo ad eludere il cuore del problema del funzionamento del regionalismo, e cioè il federalismo fiscale.

Infatti, l’unico strumento per fare funzionare positivamente un sistema di poteri e funzioni decentrati sono le risorse finanziarie attribuite con la divisione delle basi imponibili per livello di governo. Ma, anche in questo caso, nonostante la legislazione sul federalismo fiscale sia stata perfezionata tra il 2009 e il 2011, non è mai entrata in vigore per opera dei nove governi, di tutti colori e tipi, che si sono succeduti dal 2009, compreso quello attuale, che pretenderebbe di realizzare il regionalismo differenziato senza il federalismo fiscale.

Ma non è tutto. Agli attacchi del centrosinistra si sommano ora anche le prese di distanza dei governatori di centrodestra di Basilicata e Calabria, entrambi di FI, che paventano rischi sulla tenuta delle Regioni meridionali, unendosi in questo modo ai governatori di Campania e Puglia, che pure in anni passati non erano contrari all’autonomia differenziata, anzi la consideravano una sfida che avrebbero vinto facilmente!

Si aggiunga, infine, che questa autonomia differenziata fa storcere il naso anche ad una buona parte di FdI e alla stessa Meloni. Questi, infatti, sono eredi di una filosofia statualista fortemente unitaria che li porta a mal comprendere i principi dell’autonomia territoriale e dei sistemi multilivello; fosse per loro, la Repubblica dovrebbe essere governata quasi per intero dallo Stato e non da uno Stato con un certo decentramento, come accadde durante il fascismo, ma da uno Stato centrale e basta.

Ora, è noto come tutti gli ordinamenti meglio funzionanti in Europa e nel mondo abbiano forti sistemi di decentramento. Se ne trae, allora, una lezione ben precisa, e cioè che il regionalismo viene respinto e con esso anche le autonomie minori (basti pensare al disastro della legge Delrio sulle province e le città metropolitane) perché alla classe politica nazionale conviene una Repubblica malfunzionante, rispetto ad un sistema di poteri e funzioni multilivello, funzionante e ordinato.

Certamente la legge n. 86 non sarà perfetta, ma in ogni caso non rappresenta un pericolo. Semmai c’è da chiedersi se non farà la fine del federalismo fiscale, finendo, dopo l’approvazione, anch’essa nel dimenticatoio, non fosse altro che per le condizioni cui si sottopone l’autonomia differenziata e i tempi comunque estremamente lunghi di realizzazione di questa.

Il risultato di questa vicenda è che la vita politica italiana non consente ad alcuno di realizzare una qualche riforma, come il regionalismo, che possa essere utile alla competitività della Repubblica. Infatti, ad ogni elezione si promettono riforme e la maggioranza di turno si mette subito all’opera, mentre l’opposizione promette fuoco e fiamme contro perché le riforme della maggioranza spaccano il Paese o stravolgono la Carta costituzionale. E così ad ogni cambio di maggioranza.

Si tratta di uno spettacolo penoso davanti al popolo italiano e davanti alle classi dirigenti degli altri Paesi europei e anche oltre. Va avanti così almeno da venticinque anni.

In effetti è sempre mancata quella coesione tra maggioranza e opposizione sui temi della forma di governo e della forma di Stato. La necessità di riforme è ormai palese e il sistema politico-istituzionale dovrebbe funzionare come funzionò al tempo dell’Assemblea Costituente, quando forme di ispirazione diversa che al referendum istituzionale del 2 giugno del 1946 si erano pure scontrate, lavorarono insieme per darci una Costituzione in poco tempo e, per di più, una buona Costituzione. Potete immaginare cosa sarebbe successo se avessero iniziato a questionare sui brogli elettorali del referendum e sulle divisioni ideologiche – veramente tante a quel tempo – sulla maggior parte dei principi? Discussero e si confrontarono, ma furono costruttivi e arrivarono appunto ad un buon risultato.

Fu così che si scelse la forma di governo parlamentare, rispetto alla proposta presidenzialista del Partito d’Azione; il regionalismo e non il federalismo; che si accolse, con il sostegno di Togliatti, l’art. 7 sui rapporti tra Stato e Chiesa cattolica; eccetera.

Così, adesso, bisognerebbe che tutte le forze politiche discutessero, non per convenienza del momento, del divario territoriale e del funzionamento del nostro sistema multilivello, costituito, come dice l’art. 114 Cost., “dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” e che arrivassero ad una decisione che vincoli chiunque governi almeno per un altro quarto di secolo, se non per più tempo.

Se non si ritrova questo spirito, se si è contro per partito preso alle proposte dell’altra parte politica, non si giunge ad alcuna conclusione praticata, e approvare una legge serve a ben poco, perché questa sarà presto messa da parte, e certamente risultati del genere – come nel caso del federalismo fiscale – non sono un bene per i cittadini del Nord e del Sud e per il Paese tutto.

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