È appena iniziato l’iter del ddl sull’autonomia differenziata alla Camera, dopo l’approvazione da parte del Senato.

A ben vedere non è che ci sia stato un gran dibattito nell’opinione pubblica e tra le forze politiche, anche perché le posizioni in proposito sono alquanto stereotipate. Da una parte abbiamo la Lega, che ha fatto di questo disegno di legge un vessillo, e i partiti della coalizione di governo che sembrano assecondare questo proposito, ma con evidente scarso convincimento. Infatti, sia FI che FdI mostrano prudenza estrema rispetto ad una legge che potrebbe essere adoperata dagli avversari (Pd, M5s e altra sinistra) per erodere il consenso nelle Regioni meridionali.



Dall’altra parte abbiamo le forze di opposizione che, con posizioni anche diverse tra loro, insistono tutte sul fatto che l’autonomia differenziata “spaccherebbe il Paese”, accentuerebbe il divario territoriale, darebbe ad alcune Regioni maggiori risorse per le politiche pubbliche, e così via.

Né il centrodestra, né il centrosinistra si azzardano ad aprire una discussione sulla forma di Stato, sull’utilità del regionalismo e sul funzionamento delle autonomie territoriali.



Sembra di assistere, e nessuno sembra accorgersene, ad un vero e proprio “oblio istituzionale”. Da tempo la maggior parte dei comuni sono stati abbandonati dai partiti politici “nazionali”, diventati dei partiti d’opinione e senza più una rete territoriale, e i cittadini si organizzano direttamente con liste e sindaci civici; delle province non si parla proprio più, neppure dopo che la Corte costituzionale con una sentenza del dicembre del 2021 ha reso palese che la legge Delrio è incostituzionale; le città metropolitane non sono mai nate; e le Regioni sono gestite in modo contraddittorio: i partiti nazionali di opinione pretendono per sé stessi le presidenze delle giunte e lasciano ai politici regionali (tutti eletti con il voto di preferenza) i relativi Consigli, nella convinzione che la figura del presidente tenga a bada i consigli ed eviti così reazioni contro il potere centrale.



In realtà, nonostante questa contraddizione, le Regioni, sulla base delle scarse risorse di cui dispongono, assicurano almeno tre politiche pubbliche importanti: la sanità, il trasporto pubblico locale e l’assistenza sociale; con quel che rimane loro si occupano di attività produttive e tutela del lavoro, governo del territorio e ambiente, per il quale spendono molto di più dello Stato. Tenendo conto che il nodo irrisolto del Titolo V è il finanziamento delle Regioni, dato che il federalismo fiscale giace inerte da 15 anni, trascorsi tra la sua approvazione e la sua mancata entrata in vigore che perdura tuttora, bisogna dire che il nostro regionalismo fa abbastanza e che, forse, potrebbe fare di più e meglio.

Infatti le competenze e le funzioni attribuite alle Regioni dalla riforma costituzionale del 2001 fatta dalla sinistra solo molto di più di quelle esercitate, e poiché questi poteri sono stati trattenuti dallo Stato, si può dire che il regionalismo italiano sia ancora fermo al vecchio Titolo V, con un trasferimento di funzioni amministrative fermo al 1998, ben prima della riforma costituzionale.

Dunque sarebbe stata auspicabile, in occasione della discussione sul ddl del regionalismo differenziato, una discussione sul ruolo delle Regioni e sul loro funzionamento, e sull’attuazione del nuovo Titolo V; ma nulla si è visto.

Se questo dibattito non c’è stato e se tutto si è risolto in un vociare strampalato tra chi ritiene questo ddl la svolta del regionalismo italiano e chi lo considera nefasto per le sorti del Paese, è perché gli uni e gli altri sanno perfettamente che l’approvazione di questo ddl è perfettamente inutile, tanto per le sorti del regionalismo, quanto per quelle del divario territoriale, ma perfetto per mantenere lo status quo.

Non solo: questa consapevolezza è perfettamente accettata dentro la maggioranza. Possibile?

Sì, e non deve sorprendere. È sufficiente una lettura dei pochi articoli che compongono il ddl per rendersene conto. La prima considerazione riguarda proprio la scelta di presentare un ddl di attuazione dell’art. 116, comma 3 Cost., che fu compiuta nella scorsa legislatura dal governo giallo-rosso, proprio per frenare l’approvazione delle intese. La scelta di Calderoli di seguire l’operato di Boccia e di legare l’intero iter della differenziazione ai Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) inerenti ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lett. m, Cost.), può avere un solo significato: quello di andare per i tempi lunghi.

Inoltre, il procedimento tracciato dall’art. 2 del ddl prevede che la definizione dell’intesa comporti un tempo di almeno due anni prima della presentazione alle Camere per l’approvazione con legge a maggioranza assoluta. Si tenga conto che i tempi morti previsti dall’art. 2 ammontano a 255 giorni, a questi vanno aggiunti i tempi della prima negoziazione e della seconda negoziazione e quelli per eventuali dissensi tra Governo e atti di indirizzo delle Camere.

È difficile immaginare i tempi della discussione e approvazione parlamentare, a meno di nn attribuire alle Camere un ruolo meramente notarile, ma anche in questo caso molto tempo sarà necessario.

Ora, ammettiamo che una Regione qualsiasi abbia presentato una proposta di regionalismo differenziato, indicando materie e funzioni amministrative, che tale proposta sia stata giudicata positivamente dal Governo in merito al quadro finanziario regionale e che il negoziato non abbia subìto limitazioni da parte di quest’ultimo per quanto riguarda materie o ambiti di materie; insomma, che tutto sia filato liscio e che in due anni abbia ottenuto l’intesa; si può supporre che nel successivo anno si arrivi all’approvazione della legge sull’autonomia differenziata.

Si potrebbe pensare che tre anni sia tutto sommato un tempo congruo per un Paese come l’Italia; ma non è così. Infatti, la Regione in questione non ottiene niente dalla legge che la riguarda, perché – a parte la fissazione dei LEP e la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard, per i quali nel ddl è previsto un termine di 24 mesi – occorre considerare che il trasferimento concreto delle funzioni può darsi solo “nei limiti delle risorse rese disponibili nella legge di bilancio” (art. 4) e questo perché non c’è il federalismo fiscale, per cui potrebbe anche darsi che occorra aspettare qualche anno ancora, facendo sfoggio di ottimismo se si considerano le condizioni della finanza pubblica italiana.

Ma non è ancora finita. Ammettiamo ancora una volta che anche in questo caso tutto fili liscio e che le risorse siano disponibili nella legge di bilancio. Occorre ricordare che l’intesa approvata con legge stabilisce solo “i criteri per l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative necessari per l’esercizio da parte della Regione” delle funzioni da trasferire, ma in concreto, per ottenerle, la Regione interessata deve seguire un nuovo procedimento davanti ad una nefasta Commissione paritetica che effettua la proposta e la sottopone al Presidente del Consiglio dei ministri per l’adozione del decreto, dopo che la proposta della Commissione paritetica sia accettata e a sua volta proposta dal “Ministro per gli affari regionali e le autonomie, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e i Ministri competenti per materia” (sic!).

Be’, volete che per tutto questo, con il passaggio delle “carte” da un ministero ad un altro, da un ufficio ad un altro e ad un altro ancora, da un livello tecnico ad un livello politico, non trascorra almeno un altro annetto? Ed ecco che siamo arrivati a circa cinque anni dall’ipotetico momento iniziale.

Ora, a prescindere dal fatto che in politica il tempo è tutto, quale classe politica regionale può pensare anche lontanamente che questa sia la strada per potenziare politicamente la propria Regione, se in cinque anni tutto può cambiare? Stia attenta la Lega, perché ai suoi elettori nelle Regioni del Nord potrebbe venire il sospetto che stia loro somministrando un placebo.

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