Sanità a rischio: è l’allarme lanciato dagli oppositori dell’autonomia differenziata. Tanto che dal Pd è arrivata la proposta di scorporare scuola e sanità dalla riforma, per non creare due Italie. Un’obiezione che non tiene, secondo Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’università di Teramo ed esperto di regionalismo, perché scarica nel campo avversario l’onere di una situazione – quella dei divario territoriale Nord-Sud – di cui i primi responsabili sono proprio i centralisti. Lo dimostrano, dice Mangiameli, l’abisso nel quale si trova la sanità calabrese e i test Invalsi.
Professore, cosa rischia la sanità nella realizzazione dell’autonomia differenziata? Tutto, secondo gli avversari della riforma. La Regione che non ha i soldi per finanziare la salute è destinata a fornire servizi di livello sempre più basso?
Partiamo da una constatazione oggettiva e condivisa: la sanità italiana è ottima ed è molto economica, nel senso che le altre grandi sanità europee spendono di più; alcune, come quella tedesca, spendono molto di più e le prestazioni non sono superiori a quelle della sanità italiana. Detto ciò, se ci sono delle responsabilità sull’andamento della sanità italiana, dipendono più dallo Stato che non dalle Regioni che la amministrano.
Ci spieghi perché.
Ma perché statale è il finanziamento della sanità (Fondo sanitario); statale è la legislazione che può in qualsiasi momento mettere fuori gioco le norme regionali (la materia è concorrente); statale è la definizione dei Lea (livelli essenziali di assistenza); integralmente statale è il controllo sulla sanità. Ed è qui che soprattutto lo Stato ha dato il peggio di sé.
Quali sono le sue attuali prerogative?
Lo Stato può imporre alle Regioni con una sanità in debito piani di rientro anche molto onerosi, può inviare commissari dotati di potere legislativo – regionale, ovviamente –, può verificare funzionamento, conti e spese in via amministrativa e può adottare tutti i provvedimenti che ritiene necessari, dall’apertura o chiusura degli ospedali all’assunzione o licenziamento degli operatori sanitari, e può decidere delle infrastrutture sanitarie.
È c’è un esempio lampante di tutto ciò.
Esatto. La Regione che ha il peggiore standard sanitario in Italia è la Calabria. È un dato di fatto noto a livello europeo. Ebbene, la sanità della Regione Calabria, dove le questioni di ndrangheta sulla sanità sono palesi, è commissariata dallo Stato dal 2007. Qui lo Stato ha fallito come amministratore e come repressore della criminalità.
Ma come può l’autonomia essere la “cura” di una sanità che sul piano dei Lea vede contrapposti Emilia-Romagna e Lombardia, in vetta alla classifica, a Campania e Calabria?
Le Regioni italiane non presentano solo un divario nella sanità, ma in tutti i campi. Anzi, per la sanità in una qualche misura il problema non sussiste, perché l’accesso al Ssn è aperto e ci si può fare curare, in caso di necessità, ovunque. Il divario pesa nel quotidiano: nelle Regioni meridionali infatti si è costretti a vivere in una realtà inefficiente e non competitiva. Le cause del divario sono storiche, ma anche politiche.
Quali sono quelle politiche?
Sono legate alla condizione di abbandono delle politiche pubbliche per il Sud da parte dello Stato. Non serve nominare un ministro per il Mezzogiorno, se poi i governi passano senza che si faccia nulla.
D’accordo, ma stiamo girando intorno al problema.
No invece. Poiché si vuole incolpare il regionalismo di tutto questo, invito a guardare la scuola, che dovrebbe essere regionalizzata e invece è tenuta saldamente nelle mani dello Stato e per intero, con l’eccezione della scuola professionale che è stata regionalizzata negli anni 70 con l’avvento delle Regioni.
Ebbene?
Nonostante il servizio scolastico sia statale, i dati dell’Invalsi indicano un divario considerevole nel rendimento degli studenti proprio in ragione del divario territoriale. Esistono allora due Stati, uno per il Nord e uno per il Sud? A chi dovremmo fare gestire la scuola italiana, ad un ente soprannaturale?
Le Regioni del divario non sono in grado di offrire servizi efficienti; questo è noto.
Allora la domanda è come affrontare il divario territoriale, quali politiche sono necessarie a livello statale, regionale e locale. Ed è qui che il regionalismo può essere utile. Se lo Stato concedesse maggiore autonomia alle Regioni più efficienti, non è che non avrebbe nulla da fare; anzi, finalmente potrebbe e dovrebbe occuparsi seriamente di quella parte di Paese che ha abbandonato e che sta andando alla deriva.
Ci vorrebbe un fondo di compensazione?
Il problema non è solo la perequazione, che è anch’essa una competenza esclusiva dello Stato, ma di dotare le istituzioni della capacità di risolvere il problema del divario. Il tema è culturale, di cultura politica. Basta convincersi che se si mantiene questo status quo, ben presto anche le Regioni del Nord abbasseranno i loro standard e non saranno più competitive.
Abbiamo già toccato questo aspetto nell’ultima intervista. Come avviene questa perdita di competitività?
Il motivo è semplice. Un Paese che riduce le sue dimensioni competitive territoriali non offre sufficienti sbocchi alle nuove generazioni, per cui il capitale umano del Sud e del Nord preferisce trovare i suoi sbocchi all’estero, con un danno generale. Senza capitale umano non c’è futuro per nessuna parte d’Italia.
Ma se va salvato anche il Nord, del Sud cosa dobbiamo dire?
Non ci si rende conto che risollevare le sorti delle Regioni del Mezzogiorno con infrastrutture adeguate significherebbe consolidare il mercato interno italiano che nei momenti di crisi può funzionare da ammortizzatore o, addirittura, da volano.
Il problema è che al Sud c’è un’intera classe intellettuale, politica e amministrativa che di autonomia non vuole sentir parlare.
Il regionalismo in Italia ha sempre avuto nemici potenti che hanno adoperato argomenti falsi o strumentali, come quello che minaccerebbe l’unità d’Italia. È una solenne sciocchezza, anzi, l’unità del Paese è minacciata proprio da idee come quella. Per fortuna le Regioni resistono, ma come sono organizzate adesso, che è pressappoco com’erano organizzate all’inizio della loro esperienza nel 1970, non sono risolutive dei problemi nazionali.
Dove bisognerebbe guardare?
I sistemi della maggior parte degli Stati europei, compresa la Francia, sono sistemi regionali/federali, uniti fortemente dal decentramento istituzionale. Il regionalismo è il modo in cui si governa l’interdipendenza che caratterizza i sistemi sociali ed economici complessi.
Meglio aspettare?
No, come ho detto più volte, anche dalle pagine di questo giornale, la riforma regionale andrebbe fatta con urgenza e non rinviata.
(Federico Ferraù)
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