Caro direttore,
negli ultimi giorni lo scontro ideologico fra opposte fazioni si è spostato sull’autonomia differenziata. Il livello di fanatismo (a scapito di realismo e verità) è sconcertante, anche se ci siamo ormai assuefatti, purtroppo, a questo modo di fare informazione o disinformazione.

Proviamo almeno a smentire le sparate più grosse, che mirano esclusivamente a portare acqua al proprio mulino politico-elettorale, confidando sul fatto che la gente legge solo i titoli e prende tutto per buono.



1. “L’autonomia differenziata disintegra l’unità nazionale”: falso. L’Italia è da sempre uno Stato dalle forti differenze regionali e locali. Tanto che, preso atto del fallimento del centralismo post-risorgimentale, i padri costituenti (che, a differenza dei politici attuali, avevano preparazione, saggezza e visione) hanno inserito fra i principi fondamentali della Costituzione quello dell’autonomia e del decentramento (art.5), ferma restando ovviamente l’unità delle Repubblica. La riforma del Titolo V del 2001 segna la fine di ogni centralismo e recepisce in pieno il principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Funzioni e competenze vanno trasferite al livello più vicino al cittadino, purché i soggetti coinvolti siano in grado di assolvere al compito con la dovuta efficacia ed efficienza.



2. “È incostituzionale una autonomia à la carte”: falso. Non è vero che una Regione possa chiedere e ottenere quello che vuole. Le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” sono indicate precisamente all’articolo 116, tanto per le materie quanto per le modalità. Insomma è tutto previsto nel testo costituzionale. È falso parlare come se fosse qualcosa di incostituzionale o addirittura di “eversivo”. È pur vero che lo spiritico neo-centralistico ha sempre cercato di riproporsi. Da ultimo, con la riforma costituzionale del 2016, il governo Renzi intendeva ridurre le competenze regionali e inserire una clausola di supremazia statale. Ma è stato bocciato dal referendum popolare. I sostenitori del modello centralistico se ne facciano una ragione.



3. “Serve prima la legge quadro e la definizione dei Lep”: è il pretesto del sine die, una specie di tela di Penelope dalla quale il ministro Calderoli sta tentando di uscire. La definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) riguarda quei servizi che lo Stato deve garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, in quanto consentono il pieno rispetto dei diritti sociali e civili dei cittadini. Di conseguenza lo Stato deve erogare le risorse necessarie. Se ne parla da anni e anni, ma non si è arrivati a nulla. Le risorse continuano a essere erogate col criterio della spesa storica, che non garantisce affatto l’uniformità di risorse. Plausibile quindi che si voglia fissare un termine ben preciso, un altolà alle manfrine.Anche la “legge quadro” si è rivelata un pretesto per procrastinare. A sentire il precedente ministro per gli Affari regionali e Autonomie, Francesco Boccia, era “pronta” già alla fine del 2020, ma è sparita dai radar.

4. La questione dei “divari territoriali”: ci sono sempre stati e, dopo 160 anni, non sono risolti. “Il centralismo ha fallito”, risponde giustamente Calderoli. Non dipende certo dall’autonomia differenziata che ancora non c’è. Già la Costituzione del 1948 aveva un orientamento regionalista. Dopo la riforma del Titolo V del 2001, è finalmente il momento per “sviluppare le potenzialità di ogni Regione”. Ma come convincere gli oppositori più accaniti, specialmente nelle Regioni del Sud? Secondo Calderoli, c’è paura che qualcuno si avvantaggi a svantaggio loro. Quindi la strada giusta è iniziare un percorso dal quale “tutti possano avere un vantaggio, piccolo o grosso, da questa riforma”. Evitando lo scontro a priori e cercando piuttosto di negoziare concretamente, ciascuna Regione potrebbe sviluppare delle nuove opportunità nell’interesse dei propri cittadini.

5. “Ci saranno venti sistemi scolastici diversi”: ci sono già venti situazioni territoriali assolutamente diverse, proprio nel settore più centralizzato di tutti, come certificato dai Test Invalsi e dai dati Ocse. Anche qui è il centralismo ad avere fallito, accentuando le disparità. È ora che ogni regione sia responsabilizzata a implementare progetti di miglioramento che partano da una oggettiva ricognizione dello status del proprio territorio per raggiungere, con soluzioni e metodi differenziati, uno standard di apprendimento e formazione conforme ai parametri nazionali ed europei, garantendo così con successo il diritto all’istruzione. Anche sulla selezione e gestione del personale sarebbe ora di provare a cambiare rotta. È più affidabile un concorso ministeriale, con quiz “inadeguati”, che, in base a un algoritmo, catapulta un docente dalla Sicilia alla valle più a nord della Lombardia, o un concorso regionale basato sull’effettivo fabbisogno del territorio?

6. Autonomia e presidenzialismo. Da ultimo, leggiamo sui giornali che FdI sta “frenando” sulla riforma dell’autonomia differenziata bandiera della Lega, con l’intenzione di far procedere di pari passo sia la riforma dell’autonomia sia quella del presidenzialismo. Questa è l’unica motivazione che ha un senso politico e non preconcetto o ideologico come le altre di cui sopra. All’interno di una coalizione deve esserci un equilibrio fra le forze, e non si può dare partita vinta così facilmente a un componente dell’alleanza. Basta che le riforme procedano entrambe e che il programma elettorale sia rispettato, con coraggio e determinazione, maggiore di quanto dimostrato finora su altre questioni.

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