Prima i Lep, poi il timbro sulle intese Stato-Regioni. Il disegno di legge Calderoli sull’autonomia (Ddl approvato dal Consiglio dei ministri il 2 febbraio) rispetto alla bozza precedente ha introdotto questa novità. Il prossimo, importante e decisivo step del progetto autonomia riguarda pertanto la determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale. Un provvedimento per il quale il ministero degli Affari regionali ha previsto una strada con una scansione precisa dei tempi.



Intanto, all’indomani delle elezioni in Lombardia e Lazio (test positivo per il Governo) ecco l’accelerazione ai fini della creazione della cabina di regia, organismo che avrà sei mesi per studiare la materia e preparare una bozza di delibera sui Lep. Entro febbraio – viene specificato in un documento ministeriale – si intende dare “avvio effettivo” alla cabina.



L’ulteriore tempistica del progetto è in buona parte dettagliata nel disegno di legge. Ricevuta l’istanza di una Regione, entro 30 giorni si prevede che venga avviato il negoziato con lo Stato per giungere a un’intesa preliminare da sottoporre a Consiglio dei ministri e Conferenza Stato-Città. Il successivo avallo delle Camere dovrà avvenire al massimo in 60 giorni. A questo punto l’intesa sarà definitiva e dovrà comprendere l’elenco delle materie, le modalità di finanziamento delle stesse e l’istituzione di una Commissione paritetica Stato-Regione col compito di valutare la “compatibilità finanziaria dell’esercizio delle funzioni”. Come previsto dalla Costituzione, la legge finale di approvazione dovrà essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.



Si avverte così, in questo disegno, la necessità di non far dipendere la riforma (che in realtà è l’attuazione del Titolo V della Costituzione) dai venti della contingente fase politica con relative polemiche spesso strumentali. Piuttosto si stabiliscono tappe intermedie e si cerca di spostare l’attenzione sul merito di ogni singolo aspetto. Obiettivo: andare oltre il balletto di partiti e leader che attorno all’autonomia è stato inscenato a partire dal 2001. Da quando cioè la revisione costituzionale approvata dal referendum confermativo introdusse per le Regioni la possibilità di autonomia su 23 materie. Un gioco delle parti tipicamente italiano ma stucchevole, se considerato nel suo svolgimento ormai ultraventennale.

Basti pensare che il regionalismo differenziato venne approvato dall’Ulivo con l’astensione del Polo di centrodestra (orientato dalla Lega verso una forma di federalismo più marcata). La totalità dei governatori, sia di destra che di sinistra, accettò comunque con entusiasmo la novità. E dai presidenti di sinistra delle Regioni si alzarono giudizi ultra positivi. Vasco Errani (Emilia-Romagna): “Scuola, salute, cultura, ambiente, economia: il luogo delle decisioni si avvicina al cittadino”. Claudio Martini (Toscana): “Il nostro Paese da oggi è cambiato: è più europeo e più vicino ai cittadini. Utilizzeremo da subito i nuovi spazi di autonomia in particolare per una gestione autonoma dei beni culturali”. Antonio Bassolino (Campania): “Potremo mettere a disposizione del sistema delle imprese centinaia di miliardi per investimenti e occupazione”. Si aggiungeva al coro favorevole il leader Ds Piero Fassino che sottolineava: “La nostra riforma trasferisce a Regioni, Province e Comuni il 70% dei poteri che oggi ha lo Stato”.

Sono trascorsi 22 anni e da allora 12 Regioni hanno chiesto o promosso le procedure (finora invano) per ottenere l’attribuzione di competenze ai sensi della Costituzione. Purtroppo però i capovolgimenti di fronte dettati dalla convenienza partitica (vedi alcuni governatori che prima chiedono l’autonomia e poi si distinguono come voci critiche) continuano a creare ritardi e rallentamenti. Si riuscirà mai finalmente a lavorare sui contenuti?

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