I nostri padri costituenti decisero di introdurre le regioni accanto a comuni e province, poiché ritenevano che occorresse contrastare il centralismo e l’uniformità assicurando alle comunità locali un notevole grado di autogoverno. Questo aveva lo scopo di avvicinare il potere pubblico ai cittadini.

Il Titolo V della Costituzione, prima della riforma del 2001, si caratterizzava per una rigida distinzione tra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario. Con la riforma si è introdotta la cosiddetta “terza via dell’autonomia differenziata”, mediante il comma 3 dell’art.116 Cost. che prevede l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle regioni a statuto ordinario. Questo istituto non è qualcosa di obsoleto nel quadro degli Stati regionali o federali, poiché molti di essi presentano asimmetrie nel grado di autonomia degli enti che li compongono. Come affermano alcuni studiosi, la nostra Costituzione ha accolto pienamente questo principio dell’asimmetria con l’introduzione di questa clausola costituzionale. Di cosa si tratta esattamente? Tale istituto offre la possibilità alle regioni a statuto ordinario di arricchire il proprio bagaglio di competenze legislative e amministrative che già oggi possiedono, ma sulla base di un diverso principio: non più quello dell’uniformità, bensì quello della differenziazione. Si tratta di una facoltà e non di un obbligo costituzionale, da esercitarsi secondo un modello procedimentale accennato proprio dalla stessa disposizione costituzionale.



L’attuazione di questa riforma ha tardato ad affacciarsi nel dibattito pubblico a causa delle diverse sensibilità sul tema da parte delle forze politiche e anche per le grandi differenze economiche e sociali tra le varie regioni. Ma nel 2017 si è arrivati a un punto di svolta: le regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna hanno innescato un procedimento di interlocuzione con il Governo per stipulare delle intese al fine di vedersi riconoscere potestà legislativa sulle materie di competenza concorrente (che sono 23) e in tre materie di competenza esclusiva dello Stato, ex art.117 Cost., unitamente alle risorse finanziarie necessarie ad esercitare concretamente le funzioni amministrate richieste.



Per la precisione, il Veneto ha chiesto il trasferimento di ulteriori condizioni e forme di autonomia per tutte le 23 materie di competenza legislativa concorrente, la Lombardia per 20 materie e infine l’Emilia-Romagna per 16 materie.

Si tratta di una questione di grande importanza per l’assetto istituzionale del Paese: non è prefigurata una semplice modifica a livello amministrativo, bensì un riassetto delle responsabilità sulle principali politiche economiche e sociali (ad es. sanità, istruzione, ambiente e tutela dei beni culturali, infrastrutture e trasporti ecc.).

Il processo di interlocuzione di queste regioni con il Governo ha subìto un arresto a causa delle emergenze che il Paese ha dovuto affrontare negli ultimi tre anni. Ma recentemente abbiamo assistito a un ritorno sul tema, che è culminato con il disegno di legge presentato dal ministro degli Affari regionali e delle autonomie Roberto Calderoli, approvato preliminarmente dal Consiglio dei ministri in data 2 febbraio 2023.



Da quel momento e anche in questi giorni in cui si parla di riforme il dibattito si è nettamente polarizzato tra favorevoli e contrari, forse senza un’attenta analisi. Con questo contributo proviamo ad addentrarci nel merito della proposta di legge.

Il Ddl Calderoli si compone di dieci articoli in totale. All’art. 1 vengono definiti i principi generali per attribuire l’autonomia alle regioni a statuto ordinario e all’art. 2 le modalità procedurali per approvare le intese tra lo Stato e le regioni che chiedono il trasferimento di funzioni. Sono previsti dunque i passaggi attraverso cui le autonomie otterranno le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Non si tratta di una riforma costituzionale, bensì dell’attuazione della riforma del 2001 per cui il trasferimento dei poteri si realizzerebbe con un articolato percorso parlamentare e istituzionale, diverso da quello delle riforme costituzionali. Di fondamentale importanza sono gli artt. 3 e 4, dai quali si evince che condizione necessaria per procedere al trasferimento di funzioni alle regioni è la definizione dei Lep, cioè i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.); e per definire i Lep occorre definire anche i costi e i fabbisogni standard delle prestazioni. Questo delicato passaggio non riguarda soltanto l’attuazione dell’art. 116 Cost., ma in generale i rapporti finanziari tra lo Stato centrale e le regioni e tra le diverse amministrazioni dello Stato medesimo. Esisteva già una prospettiva del genere nella legge delega sul federalismo fiscale (2009), successivamente definita nel D.lgs. n. 68/2011, ma è stata di continuo procrastinata l’entrata in vigore (ora sino al 2027) di questa disciplina legislativa, anche se la legge di stabilità del 2022 ha concretamente previsto alcune disposizioni per la definizione dei Lep. Inoltre, l’art. 5 del Ddl prevede l’istituzione di una commissione paritetica Stato-regioni per determinare le risorse che servono a esercitare le funzioni in autonomia da parte delle regioni, e l’art. 6 prevede che queste ultime possano attribuire funzioni agli enti locali con contestuale trasferimento di risorse. L’art. 7 stabilisce un periodo massimo di durata dell’intesa stipulata tra lo Stato e la regione: 10 anni, prorogabile per altri 10. La concessione dell’autonomia non deve comunque ledere il principio di unità del Paese, motivo per cui agli artt. 8-9 si sancisce che non devono esserci maggiori oneri a carico della finanza pubblica e si crea un fondo di perequazione per promuovere lo sviluppo economico, la solidarietà sociale e la coesione territoriale, in modo da non lasciare indietro i territori con maggiori difficoltà. E infine l’art. 10 conferma il proseguimento dell’iter avviato già dalle tre regioni citate in precedenza. Il testo è già stato incardinato al Senato (AS/615).

Viene delineato un percorso che fa comprendere come l’intento sia quello di una riforma del regionalismo italiano, ma con una sfida importante: concedere autonomia per promuovere flessibilità, sperimentazione e responsabilità evitando disparità tra i cittadini. Come sottolineato più volte dal prof. Cassese, attendendo di vedere la modalità effettiva di realizzazione, questa riforma può diventare anche l’occasione per discutere a fondo di tutti i temi e riorganizzare la nostra amministrazione, soprattutto quella centrale, in ottica di miglioramento.

Vanno comunque fatti due rilievi circa i Lep e il ruolo dello Stato. Quello dei Lep è forse il nodo più insidioso da sciogliere. Tali livelli indicano la soglia costituzionalmente necessaria e sono un nucleo invalicabile per rendere effettivi i diritti ed erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale. Essi dovranno essere determinati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. La criticità che qui si può notare è l’esclusione del Parlamento dalla definizione dei Lep, affidata a una cabina di regia di esperti (recentemente nominati) che dovranno effettuare un triplice monitoraggio basato su spesa, effettive prestazioni e qualità e poi sancita con Dpcm (che è un atto di natura amministrativa, non legislativa).

Nel Ddl c’è una disposizione specifica sulle regioni che non chiedono la differenziazione (art. 8, comma 3). La garanzia delle prestazioni sociali non dipende dalla legislazione bensì, oltre che dalle risorse finanziarie necessarie, dalla capacità amministrativa, e quando quest’ultima manca a livello regionale tocca allo Stato sostituirsi. Ciò è accaduto soprattutto nelle regioni meridionali a causa dell’insufficienza di capitale umano, culturale e politico, aumentando il divario con il Nord cominciato già dall’unità d’Italia. Su questo punto finora lo Stato ha fallito, esercitando in modo non adeguato il potere sostitutivo. Quando il testo passerà all’esame delle Camere sarebbe opportuno soffermarsi sugli aspetti cruciali in modo da prevedere più precisamente meccanismi volti a non lasciare indietro i territori più svantaggiati, secondo il dettato costituzionale.

In definitiva, possiamo considerare che un adeguato bilanciamento dei poteri tra Stato e periferia può essere assicurato soltanto distinguendo i compiti che hanno le dimensioni locali e i compiti che invece possono avere soltanto una dimensione statale o sovrastatale. L’ordinamento può essere decentrato purché al centro vi siano strutture capaci di stabilire gli standard di ciò che deve essere garantito a tutti i cittadini senza distinzione, di verificarne l’attuazione e il rispetto e di intervenire in via sostitutiva in caso di mancato rispetto di essi.

Di sicuro bisognerà osservare attentamente i successivi passaggi per verificare come verranno superati alcuni aspetti critici evidenziati, ma avendo presente che l’idea di “decentrare” le funzioni attribuendole alle regioni è un valido strumento per avvicinare i cittadini al livello di governo più prossimo e anche per accrescere la responsabilità della classe dirigente verso di essi.

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