L’autonomia differenziata non piace a molti sindaci del Sud, che infatti hanno rivolto un appello al presidente della Repubblica puntando il dito contro una riforma, quella portata avanti dal ministro Calderoli, considerata da una parte degli amministratori locali “spacca Italia”. Sul disegno di legge appena presentato dal Governo, d’altra parte, è in corso un dibattito serrato. Andrea Giovanardi, docente di diritto tributario all’Università di Trento, prova a spiegare le ragioni della riforma.
Professore, perché la riforma suscita così tante polemiche: hanno ragione d’essere?
L’autonomia differenziata è prevista dalla Costituzione per le regioni a statuto ordinario, i sindaci si lamentano invece del fatto che i comuni da loro amministrati non sono nelle condizioni di rendere tutta una serie di servizi che invece sono forniti ai cittadini da comuni situati in altre parti del Paese. Si tratta quindi di due questioni diverse, anche se si tende a ricondurre il problema dell’autonomia differenziata (o meglio dei rischi che essa genererebbe) al divario Nord-Sud e, quindi, a ben vedere, alla “questione meridionale”.
Ci può spiegare meglio?
L’autonomia differenziata regionale è un processo che tende, in attuazione di una norma della Costituzione, a riconoscere, a seguito di una “trattativa” Stato-Regione, il trasferimento di competenze e funzioni in 23 materie specificamente individuate dalla Costituzione stessa alle regioni (a tutte le regioni che ne facciano richiesta). I sindaci, invece, si lamentano perché ritengono che il Sud sia particolarmente svantaggiato perché lo stesso livello di servizi garantiti ai cittadini in altra parte del territorio nazionale non viene garantito anche nel Mezzogiorno.
Ma la riforma rischia di favorire alcune regioni? È sufficientemente equilibrata per non sfavorire una parte del territorio nazionale?
Ci sono regioni che, legittimamente, perché lo prevede la Costituzione, chiedono funzioni e competenze nelle materie previste nella Costituzione stessa. Tutto questo dovrà passare da una trattativa. Non è che la regione chiede e il Governo dà senza discussione alcuna: la regione chiede e il Governo dovrebbe acconsentire al trasferimento delle sole competenze che ritiene possano essere esercitate in modo più efficiente dalla regione. Chiarito ciò, è il caso di specificare che è sbagliato dire che possono venire trasferite intere materie alle regioni con conseguenti rischi per l’unità nazionale: possono essere trasferite, sempre che lo Stato lo ritenga opportuno, solo alcune delle funzioni riconducibili agli ambiti materiali previsti dalla Costituzione. Questo, va da sé, genera il problema del finanziamento, atteso che se il “provider” diventa la regione al posto dello Stato andranno riconosciute almeno le somme che oggi lo Stato spende nell’esercizio delle funzioni trasferite. La Costituzione tuttavia non consente che il finanziamento avvenga tramite trasferimenti dal centro, sicché lo strumento che può essere utilizzato, in linea con l’art. 119 della Costituzione, per finanziare quelle competenze non può essere individuato nei tributi propri, perché se così fosse i cittadini della regione pagherebbero due volte per l’ottenimento degli stessi servizi, ma piuttosto nelle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali riferibile al territorio.
Ed è qui che nasce il timore delle regioni contrarie, non è vero?
Sì, temono che questo meccanismo, l’unico possibile, si trasformi in un vantaggio per le regioni che ottengono l’autonomia differenziata: se, una volta trasferita la funzione, che in ipotesi costa 100, viene riconosciuta a copertura una compartecipazione a un tributo che vale 100 ed è pari al 5% del gettito di quel tributo, è evidente che se l’anno successivo aumenta il gettito quel 5% non mi darà più 100, ma qualcosa in più, che la regione cui viene riconosciuta la nuova funzione può utilizzare senza vincoli di destinazione. È vero anche, però, che se il gettito diminuisce, la differenza negativa rispetto alla spesa che la regione si è accollata dovrà trovare copertura nelle sue risorse. Secondo gli oppositori alla riforma è inammissibile che, per effetto della gestione regionale di alcune funzioni, restino più risorse alle regioni che hanno ottenuto l’autonomia differenziata per effetto del descritto svolgimento del meccanismo compartecipativo.
Ma qual è la scommessa dell’autonomia differenziata?
La scommessa è che, grazie a una gestione più efficiente delle funzioni trasferite, ci sia maggior crescita, che si trasforma in più risorse per la regione, ma anche in più risorse per lo Stato: se, tornando all’esempio precedente, la regione ha il 5% del nuovo e maggior gettito, lo Stato avrà il restante 95%, con la conseguenza che l’autonomia dovrebbe innescare percorsi che, grazie all’aumento del gettito complessivo, avvantaggino entrambi, in una logica win-win. L’obiettivo dell’autonomia non è sottrarre risorse alle regioni meno fortunate, ma gestire con maggiore efficienza alcune funzioni a livello regionale (risparmiando se possibile), generare un effetto positivo sull’economia e la società di quel territorio, generare maggiori risorse sia per la regione che per lo Stato, a cui spetta la perequazione tra territori a diversa capacità fiscale allo scopo di ridurre il divario.
C’è però un problema: per trasferire alcune competenze in certi ambiti occorre definire i livelli essenziali delle prestazioni. E qui lo Stato è inadempiente da tempo.
Per sanità, istruzione, assistenza, trasporto pubblico locale (le prime due voci restano le più importanti, ma per la sanità ci sono già i livelli essenziali di assistenza), occorre stabilire i livelli essenziali delle prestazioni al di sotto dei quali non si può scendere, dovendosi garantire l’uniformità di trattamento tra tutti i cittadini, ovunque essi risiedano. Non è possibile ignorare questo profilo: lo Stato è del tutto inadempiente quanto meno dal 2011. Nella legge di bilancio si prevede che non si possa arrivare a nessun trasferimento di competenze prima della determinazione dei Lep, ovviamente nelle materie che richiedono i Lep; analogamente si stabilisce nella bozza Calderoli di legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione. Ci tengo a dire, tuttavia, che, se tutto ciò è vero, è anche vero che la determinazione dei Lep non dovrebbe essere considerata condizione necessaria per far partire l’autonomia differenziata: come ho cercato di spiegare, infatti, le regioni si vedrebbero trasferire delle funzioni che andrebbero finanziate in misura corrispondente a quanto lo Stato già oggi spende per quelle funzioni, non determinandosi per ciò alcuna sperequazione. Si tratta comunque di valutazioni inutili a fronte della recente diversa scelta legislativa.
La definizione dei Lep, tuttavia, potrebbe non essere così semplice.
Non è semplice, ma è tutto da discutere che sia così difficile. Nella legge di bilancio viene prevista una cabina di regia, presieduta dal presidente del Consiglio dei ministri, che dovrà, nei dodici mesi seguenti alla sua istituzione, arrivare alle determinazione dei Lep. Si è cercato quindi di accelerare il processo che deve portare a questa determinazione. Ci sono anche qui polemiche perché si dice che un conto è la determinazione dei livelli, un conto è il loro finanziamento. La mia risposta è che non si può finanziare in modo corretto ciò che non si tenta nemmeno di determinare. Arriviamo alle determinazioni, fissiamo i punti di riferimento, superiamo il finanziamento a spesa storica attraverso la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard: se a ciò si arrivasse, sarebbe un importantissimo passo in avanti.
(Paolo Rossetti)
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