Sono riprese in sede governativa le trattative per dare attuazione all’art. 116, III comma della Costituzione che prevede per le Regioni che lo richiedono di avere più poteri rispetto a quanto è previsto dalla Costituzione stessa. Tale richieste sono state avanzate fin dalla scorsa legislatura da tre Regioni: Veneto, Lombardia (regioni in cui si è svolto nel 2017 un referendum) ed Emilia Romagna, ma ad oggi non si è giunti a stipulare l’intesa col Governo, atto fondamentale per l’ottenimento di una maggiore autonomia, cui deve far seguito una legge dello Stato approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta.
Dal gennaio del 2018 sono in corso trattative tra Governo e Regioni senza che sino ad oggi si siano visti risultati: discussioni politiche senza fine si sono susseguite, convegni e seminari sono stati celebrati, audizioni parlamentari hanno avuto luogo ma la meta sembra ancora lontana. Anzi: con l’insediamento del nuovo Governo essa pare allontanarsi sempre più, come se le voci contrarie a concedere a tali Regioni maggiore autonomia stessero per avere il sopravvento. Voci contrarie: si tratta delle Regioni del Sud, che temono un ulteriore depauperamento degli interventi dello Stato centrale secondo un’equazione politicamente assai allettante ma priva di fondamento. Si dice infatti che il regionalismo differenziato porterebbe nelle casse delle Regioni del Nord, insieme ai maggiori poteri, anche maggiori risorse finanziarie a scapito del Sud, già sottosviluppato. Quella che sembrava una richiesta delle Regioni tutto sommato innocua, e comunque prevista in Costituzione, si sta trasformando in una diatriba tra le due note aree del Paese, uno scontro ideologico tra Nord e Sud, dalle radici assai profonde.
Inutile dire che, se le Regioni richiedono più poteri, è naturale che ricevano più finanziamenti dallo Stato, senza modifiche sostanziali per le finanze delle altre Regioni: ormai questa strana lotta tra ricchi e poveri ha preso piede coinvolgendo appieno le forze politiche, con la Lega schierata in difesa delle sue Regioni e il Movimento 5 Stelle totalmente appiattito sulle rivendicazioni del suo elettorato, prevalentemente situato al Sud.
A sua volta il Pd, che regge il ministero degli Affari Regionali con Francesco Boccia, sta facendo di tutto per allungare i tempi, da ultimo collegando l’attuazione del regionalismo differenziato alle riforme costituzionali: il che significa adottare una legge ordinaria (si parla di legge quadro, completamente a sproposito) o una legge costituzionale per definire alcuni aspetti della procedura prevista in Costituzione all’art. 116, III comma Cost. Il che avrebbe anche senso – come ha messo in luce la dottrina costituzionalistica – se non fosse che ormai le trattative sono così avanzate da far pensare che la proposta altro non abbia che scopi dilatori, come fu nel 2007 con la proposta di legge Lanzillotta, che mise una pietra sopra i tentativi di attuare il regionalismo differenziato di quegli anni portati avanti dalla Regione Lombardia.
Va detto, allora, che le resistenze all’autonomia differenziata evidentemente presenti non solo nelle Regioni del Sud ma anche nella burocrazia ministeriale romana hanno un fondamento. Tale riforma infatti costringerebbe a cambiare molto delle strutture centrali del nostro Stato, le quali dovrebbero attivare processi di adattamento al nuovo panorama regionale in cui non vi sarebbero più Regioni “uniformi” da governare bensì realtà differenziate da trattare secondo le loro peculiarità e non in modo standardizzato come succede oggi: molto lavoro in più, certamente.