Alcune considerazioni sull’autonomia delle Regioni, più o meno differenziata che sia. La premessa è che la riforma non porta né al bene assoluto, né al male assoluto. Tutto dipenderà da come verrà concepita, messa in pratica, gestita. Le informazioni che circolano rappresentano una semplice base di conoscenza, e nulla più, dei sentimenti che si vanno condensando intorno al tema.
La stessa bozza del ministro Roberto Calderoli con ogni evidenza sarà rimaneggiata per approdare in Parlamento dove potrà e dovrà subire il trattamento di deputati e senatori con tutte le sensibilità che potranno esprimersi e farsi valere. Insomma, se fossimo a una regata siamo ai giri prima della partenza. La gara è tutta da fare. L’importante è che si competa con trasparenza e lealtà.
Anche la querelle se sia utile o necessario discutere dell’autonomia assieme al presidenzialismo lascia il tempo che trova perché il problema non è (solo) giuridico ma di governance complessiva. Non è un mistero, infatti, che il rafforzamento delle Regioni in termini di competenza debba andare di pari passo con l’irrobustimento del potere centrale. I due termini non sono in contraddizione.
L’unico modo per evitare spinte centrifughe, con pezzi di Paese che tendono a staccarsi l’uno dall’altro, è dotare il Governo di una maggiore forza di indirizzo e di coesione. Possiamo consentirci di introdurre più autonomia territoriale se al tempo stesso rendiamo più solido e più compatto l’intero sistema. Si tratta di due facce della stessa medaglia ed è consigliabile considerarle insieme.
È vero che i percorsi giuridici sono diversi e che per l’introduzione del presidenzialismo, in ciascuna forma si vorrà realizzare, occorre toccare la Costituzione non bastando una legge ordinaria, ma dal punto di vista pratico e politico non si può correre il rischio di legittimare piccole repubbliche indipendenti in concorrenza l’una con l’altra con il rischio di disperdere il valore dell’unità.
Questo soprattutto dopo le esperienze del Covid e della guerra, entrambe ancora in atto, che hanno dimostrato come certi problemi vadano affrontati a una scala superiore – almeno europea – non potendo aversi alcuna soluzione a livello nazionale e figuriamoci dunque a livello regionale. Lo spirito del cambiamento deve tener conto degli effettivi vantaggi procurati senza perdersi in questioni di principio.
Ora è chiaro che la questione sarà sottoposta alla dialettica tra maggioranza e opposizione, nord e sud, ricchi e poveri. E che ciascuna parte in causa rispetterà il copione che le sembrerà di dover recitare per tener fede agli impegni assunti con gli elettori, i gruppi d’interesse o la propria coscienza (addirittura). Se si tenesse conto anche del buon senso certamente non si sbaglierebbe.
I livelli essenziali delle prestazioni (Lep), una delle principali materie del contendere, vanno fissati e finanziati. La spesa storica, che premia chi ha più avuto nel passato, accentua i divari anziché ridurli e quindi va superata. Il fondo di perequazione – sulla cui sorte ci sono interpretazioni divergenti – va mantenuto per spirito di solidarietà. Per favorire un’amicizia lunga ci vogliono patti chiari.
Detto questo è pur vero che il Mezzogiorno deve darsi da fare per uscire dalla condizione di malato cronico. Una volta ottenute le medicine (i fondi) e le istruzioni d’uso (gli strumenti per utilizzarli) non può continuare a piangere miseria senza darsi da fare per costruire un ambiente stimolante e favorevole agli investimenti anziché depresso e responsabile della continuata fuga dei giovani.
Il nuovo assetto organizzativo del Paese, se e quando vedrà la luce, dovrà rispondere a criteri alti e condivisi diretti a un miglior funzionamento generale, di tutti e per tutti, al centro come in periferia, con lo sguardo puntato sul medio e lungo periodo e non sul breve per un presunto vantaggio in termini di voti o altro. E sarà la cartina al tornasole per amministratori locali capaci di cogliere la sfida.
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