In un editoriale del 23 maggio sul Corriere della Sera Galli della Loggia ha messo in discussione non solo l’attuale fase del regionalismo italiano, proteso verso l’approvazione del ddl Calderoli (AS/615), ma persino la necessità stessa delle Regioni, considerandole una costruzione artificiale e non storicamente fondata, come invece sarebbero le province, e per di più un pericolo per la sopravvivenza dello Stato e della sua unità; indirizzando così un monito al partito di maggioranza relativa, Fratelli d’Italia, che guida il governo e che per posizioni storiche dovrebbe essere statalista e contrario alle autonomie.
Tale posizione lascia trasparire una involuzione di pensiero che non considera la storia politica italiana e la condizione in cui ha vissuto questo Paese, che è quella del divario territoriale; in più, sulle posizioni politiche dei partiti che compongono l’attuale maggioranza, pare non cogliere il nesso tra le due riforme che si vogliono condurre in porto: un regionalismo più avanzato e una guida del governo con una legittimazione più forte.
È un errore pensare che le Regioni siano una realtà artificiale. Esistono da sempre le “Regioni storiche” e la loro rappresentazione fisica è data dalle 16 statue che reggono il tetto dell’Altare della Patria, segno più che avvertito di una realtà esistente che si faceva di tutto per ignorare e che sono riemerse quasi da sole ben prima dell’approvazione della stessa Costituzione, con le Regioni speciali.
A parte questo profilo, occorre considerare che la condizione precaria della Repubblica è stata da sempre figlia della visione statualista che purtroppo in Italia, con molta probabilità, ha un seguito così ampio nel tentativo di esorcizzarne i limiti culturali e reali.
Il disastro maggiore compiuto dallo Stato è il divario territoriale nato per il modo in cui fu effettuato il processo di unificazione e non più risolto. In meno di vent’anni, tra il 1990 e il 2010, la Germania, con un patto economico tra il governo federale e i Länder occidentali a favore dei cinque Länder della ex DDR, ha riassorbito buona parte del divario tra l’Ovest e l’Est invertendo il processo migratorio interno.
In Italia è stata sufficiente la politica di bilancio di cinquant’anni, tra il 1861 e il 1911, per scavare un solco profondo all’interno del Paese. Sul piano istituzionale questa perversa politica finanziaria si è avvalsa della piemontizzazione, realizzata con le leggi di unificazione del 1865. A più di centosessant’anni dall’unità, lo Stato non ha e soprattutto non è in grado di realizzare una politica nazionale per colmare il divario. Dalle Regioni meridionali l’emigrazione è endemica e ciò comporta una povertà crescente di capitale umano. Ma quello che è peggio oggigiorno è che ormai da tempo, nell’assoluta indifferenza di questo Stato, ogni anno il 25% di ogni classe, ben oltre 100mila italiani, di cui la maggior parte diplomati e laureati (circa il 70%), e una quota parte anche con titoli postlaurea (specializzazioni e dottorati), abbandona il Paese. Ormai si emigra non solo dal Sud, ma anche dal Nord.
Lo statalismo, perciò, non affronta e non risolve i problemi del Paese e i governi centrali appaiono sempre lontani e la politica nazionale un affare di palazzo. Lo dimostra proprio il modo in cui è gestita la scuola italiana, tutta in mano allo Stato. Gli statalisti vecchi e nuovi vadano a leggersi i risultati dei test Invalsi, per rendersi conto di quanto grave possa essere questo modo di parlare dello Stato come di un totem da idolatrare.
Ogni spinta verso il centralismo, come con il governo Monti e quello di Renzi, ha aggravato la situazione, senza che gli autori dell’Imu sulla prima casa, del Jobs Act, della “Buona scuola” e dello svuotamento delle Province già dal 2011 abbiano ridotto divario e inefficienze.
Regioni e province costituiscono un modello di organizzazione che può concretamente gestire una Repubblica a sovranità aperta, come l’Italia, e in cui lo Stato è chiamato ad affrontare sfide internazionali ed europee. Le province sono gli unici enti territoriali con compiti di coordinamento della pianificazione in grado di svolgere compiti sussidiari nei confronti dei comuni piccoli che sono la quasi totalità dei comuni italiani. Le Regioni sono parte integrante di tutte le politiche pubbliche e sono in grado di offrire esempi di gestione migliori di quello dello Stato. Persino le Regioni meridionali, in presenza di un assetto certo dei poteri e di risorse finanziarie sicure, sono in grado di gestire politiche pubbliche con successo.
Dopo la riforma del Titolo V del 2001 ci si sarebbe aspettati una legislazione di attuazione e di adeguamento alle nuove disposizioni costituzionali, mettendo soprattutto in pratica modelli collaborativi tra Stato, Regioni e autonomie locali. Invece lo Stato ha praticato un assolutismo legislativo sul piano dei poteri legislativi e amministrativi, ha impedito persino, dal 2011, l’entrata in vigore del federalismo fiscale, ha sfruttato la crisi economica per indebolire le articolazioni della Repubblica e salvaguardare la spesa ministeriale.
Sorprende che dopo il fallimento della riforma costituzionale centralista e antidemocratica di Renzi e del Pd, alcune Regioni abbiano intrapreso un percorso costituzionale per potenziare la loro autonomia nell’interesse delle popolazioni che vivono sul territorio?
È vero che sono state le Regioni più ricche, che risultano essere quelle meglio amministrate, ma non c’è alcuna secessione in atto, se già undici regioni ordinarie sono pronte a negoziare le intese per chiedere ulteriori forme di autonomia. Anzi, viene da chiedersi se questa non sia la sola strada possibile, finalmente, per una riforma dell’amministrazione pubblica statale, necessaria con il funzionamento di un regionalismo più avanzato, che sposti nel territorio la risposta ai bisogni dei cittadini.
Agitare sentimenti statalistici e nazionalisti per paventare un pericolo per l’unità della Repubblica è quanto meno un tentativo infelice, atteso che la Costituzione contempla a difesa dell’unità precisi poteri dello Stato e grandi istituzioni, come il Parlamento e il Presidente della Repubblica. Le Regioni, chiedendo più autonomia, non intendono minare i poteri dello Stato, semmai auspicano che lo Stato faccia bene il suo dovere costituzionale.
Il ddl Calderoli ha ancora un lungo percorso all’interno delle aule parlamentari e certamente si può ancora migliorare, ma pensare di stoppare questo processo, già tante volte fermato in passato, non è nell’interesse della Repubblica e dei cittadini italiani.
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